PEZZI DI DADAS V
Sogno e Riscatto
Carmen D’Agostini (Parte 1 di 5)
“BUIO”
Andrea Ferraro
Notte.
Sto correndo da alcuni minuti, forse ore, la direzione non la conosco. Davanti a me le solite strade, incorniciate da automobili parcheggiate. I fari spenti sono gli occhi chiusi di una città che di giorno si affanna febbrile. Sotto ai miei piedi scorre un fiume di cemento. Sopra la mia testa un cielo nero e senza stelle. Nemmeno uno spicchio di luna a darmi conforto.
Saranno forse le due o le tre del mattino, ma tiro semplicemente ad indovinare.
So solo che avevo bisogno di uscire, di lasciare la stanza in cui mi trattenevano contro la mia volontà. Buffo che ad avermici richiuso fosse stata proprio lei, Miriam, la compagna di una vita. Ma non ho tempo per pensare a questo, devo continuare a correre.
Per quanto la mia corsa sia disperata, mi pare di non sentire fatica. A sovrastarmi solo un sentimento di crescente angoscia.
Tutto sembra fluttuare in questi attimi infiniti.
Ristagna l’aria e nella mia testa si fa strada un rumore ritmato, sgradevole, costante. Non capisco da dove provenga, fatico ad immaginare cosa lo produca. Meglio continuare a correre.
Raggiungo il cuore della città, cerco rifugio negli anfratti del centro storico, anch’esso inspiegabilmente deserto. Non un’anima tra il porfido e i mattoni, non il riflesso di sembianze umane tra le vetrine. Mi sforzo, ma proprio non riesco a ricordare l’ultima volta che ho percorso queste vie. Eppure ogni cosa sembra così stranamente uguale a come la ricordavo. È solo tutto più freddo. Arido.
Svoltato l’ennesimo angolo, adocchio una palazzina dall’architettura stranamente periferica. Il Suo stile stona rispetto ai palazzi in prevalenza ottocenteschi del centro.
Il portone dello stabile è spalancato e i miei passi incerti si arrestano sulla soglia.
All’interno una sala immensa e scarsamente illuminata, quasi completamente spoglia. In fondo ad essa, a notevole distanza, riesco a scorgere appena la sagoma di un letto in cui una persona sembra riposare beatamente. La figura è sfocata, ma appollaiata sulla testiera del letto, le zampe saldamente avvinghiate alla struttura in plastica, riesco a distinguere, o almeno così mi pare, la figura di una scimmia.
Accenno un passo verso il fondo della stanza, dentro di me si fa largo l’idea, poi la necessità, di raggiungere quel letto. Il primate si desta, volge lo sguardo verso di me. I due occhietti saettano attraverso la stanza, una smorfia beffarda scopre l’intera dentatura dell’animale. Il suo sorriso grottesco scuote il mio corpo in un lungo interminabile brivido caldo.
Poi d’improvviso un rumore ritmato, sgradevole, costante. Qualcosa mi afferra alla schiena, un dolore lancinante si propaga sino alla gamba destra, il braccio sinistro è in fiamme… un ultimo colpo sordo alla testa.
Luce intensa.
Riesco a sopportare appena l’irruenza del sole, i cui raggi mi piovono negli occhi come schegge.
Siamo su quel prato, Miriam ed io, quel prato sul quale tanti anni fa dimenticammo il tempo e il nostro nome. E lei mi guarda dritto negli occhi, ridotti a due fessure. È così giovane e bella. Sembra proprio quel giorno. È quel giorno.
Lei e quella sua bellezza timidamente aristocratica, così fieramente posata, ingenuamente stupita da ciò che era altro da lei. Perfetta, ma imprecisa. Perfetta perché imperfetta.
I capelli bruni e lisci sempre a caschetto, ricordavano lo stile di un’agente segreta sotto copertura. Gli occhi cioccolato scuro, che uno sguardo poco attento avrebbe ricordato neri. Tutto in lei, anche volendo tacere del suo sedere ostinatamente arrampicato sulla schiena, traeva a sé magneticamente.
Eppure, a conoscerla appena sotto la superficie, sempre che lei te lo concedesse, ti esplodeva davanti la sconcertante fragilità di una donna incatenata alla propria necessità di perfezione. Mai che concedesse a se stessa la tregua di un progetto abbandonato a metà, mai che lasciasse spazio alla sensazione, tanto sgradevole quanto tipicamente umana, dell’impotenza. Una cattedrale abitata da una bimba. E a dispetto della splendida e gioviale apparenza, capitava di trovarla sola e nascosta dentro se stessa, chiusa la porta e inghiottita la chiave. Era forse quest’enorme contraddizione ad avermi consegnato a lei anima e corpo da quel pomeriggio e quella notte sul prato insieme a lei.
Ma non posso dire che siamo mai stati davvero una cosa sola. Mai ci è venuta in mente la stessa battuta stupida. Lei amante della musica leggera italiana, io dipendente dal rock anni ‘60 e ‘70; io cultore della tristezza, del dramma cinematografico, lei ambasciatrice della commedia, perchè “già c’è troppa sofferenza al mondo per dover soffrire anche quando ci si rilassa”; lei dinamismo futurista, io elogio alla lentezza e al raziocinio. Ciò che però davvero riduceva a centimetri le nostre distanze incalcolabili era la sua attitudine naturale ad accettare ogni mia diversità, la sua capacità innata di trasformare in un’opera d’arte in ogni cicatrice della mia memoria.
Dove siamo? È davvero possibile che siamo tornati dove e quando tutto è cominciato? Lei mi accarezza la barba come ha sempre amato fare, disegnando con le dita i contorni del mio volto.
Adesso ricordo e realtà cominciano a danzare pericolosamente al centro di quella sala enorme e desolata che è la mia mente. Un valzer a cadenza regolare. E io stento a comprendere chi sia a condurre.
Ancora quell’odioso rumore ritmato, sgradevole e costante.
Buio.
Stiamo affrontando la bufera Miriam ed io, a bordo della nostra auto. È una notte di fine gennaio, credo. Almeno così dice il display dell’auto. Sembrano essere passati tanti anni, sul viso di Miriam ne intravedo almeno una quindicina di più, nascosti fra i due solchi che le incorniciano la bocca e le piccole grinze a lato degli occhi. È allarmata, le mani si stringono tenacemente sul volante. Mi parla, strilla, anche se non riesco a capire una parola. La neve si abbatte con ferocia sul parabrezza e rende quasi impossibile la benché minima visibilità. Quante stracazzo di volte le ho ripetuto che è pericoloso mettersi in macchina con queste condizioni meteo! Sempre di testa sua, porca puttana!
Cerco di muovermi, vorrei riuscire quantomeno a comunicare con lei in qualche modo, ma ho la sensazione che le forze mi abbandonino.
I suoi occhi si fissano sconcertati per un’ultima volta nei miei. Poi sento le ruote dell’auto perdere aderenza, il motore gira a vuoto per qualche secondo e un primo urto ci fa sobbalzare entrambi, mandando in frantumi il parabrezza. Ora stiamo precipitando. La sensazione è quella di assistere alla scena da fuori, come da dietro una telecamera.
Bip……… Bip…….. Bip………
Mi trovo di nuovo sulla soglia di quella stanza buia, in fondo sempre quel letto. Mi avvicino con passo incerto. È un letto d’ospedale, ora posso distinguerlo chiaramente. Adagiato con le braccia lungo i fianchi giace un uomo. La vita lo abita ancora, intenzionata a consumarlo lentamente, pezzo per pezzo. Intorno al capezzale, una serie di macchinari gli legge la sorte. La testa e il viso sono fasciati, così come la gamba destra e l’avambraccio sinistro, reciso per metà. I capelli spolverati di una gradevole brizzolatura, le condizioni quasi disperate.
Il braccio destro dell’uomo, già allacciato ad una flebo di soluzione salina, è tempestato di fori, quasi tutti in prossimità dell’incavo del gomito. Chiaramente un tossico, o quello che ne resta.
La scimmia continua a fissarmi. Non sorride più, gli occhietti di un rosso rubino tradiscono, piuttosto, curiosità.
Un vociare indistinto, confuso miscuglio di vecchie canzoni, poesie e preghiere, cresce intorno a me. L’oscurità nella stanza si ritira come una nube di fumo all’apertura di una finestra, lasciandomi senza parole. Una moltitudine di manichini di legno snodabili, dalle dimensioni umane e nelle pose più varie, circonda il letto. Più del terrore per quella grottesca apparizione, mi assale un enorme senso di solitudine.
La scimmia, mi porge una scatola. Il contenuto mi è orribilmente familiare: del cellophane con all’interno un mucchietto di polvere marroncina, un cucchiaio, un accendino, una siringa già riempita per tre quarti di liquido marrone e un laccio di gomma. Un brivido scende lungo la mia schiena scuotendola come un albero percorso da un fulmine. Mi chino sul degente e mi affanno e scoprirne il volto avviluppato nelle garze.
Cazzo, il moribondo sono io! Nella testa mi esplode una granata di ricordi e pensieri. Con lo stesso fragore, con gli stessi effetti devastanti. Vacillo, perdo per un attimo l’equilibrio, trovando infine sostegno nella testiera del letto.
Ora è tutto terribilmente chiaro. Quella notte di fine gennaio di tanti anni fa Miriam guidava disperata in mezzo ad una tormenta, non per vezzo o sciocca imprudenza. Faceva slittare le ruote ben oltre il limite sopra il manto nevoso nella speranza ormai quasi vana di riuscire a portarmi all’ospedale più vicino. Non era la prima volta che mi facevo di brutto, ma mai prima avevo mischiato droga e alcol in quella maniera. Non so se cercassi il limite o una fine, ma troppo spesso sono sinonimi ed era da tanto che avevo perso il gusto per sofismi e sottigliezze. Eppure… quante volte Miriam aveva dato ogni briciolo del suo tempo e delle sue energie per cercare di tirarmi fuori da quella merda! L’auto aveva perso aderenza una volta di troppo, infrangendo il guardrail e facendoci precipitare nel vuoto. Poi istanti interminabili in volo verso l’abisso. Poi più nulla.
Quella carcassa, fin troppo dignitosa nella sua miseria, non sono altro che io.
La scimmia scopre gli orrendi canini e lancia un grido straziante puntando la zampa verso di me. Il pavimento della stanza comincia a tremare, le pareti si aprono come un nero sipario. Mi accorgo di trovarmi al centro di un palco, abbagliato da fari Par Can disposti a grappoli di fronte a me. Ognuno dei manichini, prima indistinguibili, ha ora assunto le fattezze familiari dei miei parenti e amici più cari. Le loro figure riempiono, fino all’ultima, le poltrone del teatro. Sembrano attendere la messa in scena di una famosa pièce teatrale. Miriam siede in prima fila nei suoi abiti più belli. Il mio sguardo si posa subito sul suo viso. Bianco, senza vita. In preda allo sgomento, obbligo i miei occhi, costretti a fessure dalle luci di palco, ad un ulteriore sforzo e l’orrore mi pervade. Il suo corpo è tranciato di netto a metà all’altezza dei fianchi. Dalla vita in giù ormai non vi è più nulla, a parte alcuni brandelli di viscere strappate. Il fiato mi si spezza in gola.
Tra il pubblico, che ormai attende da alcuni minuti l’inizio dello spettacolo, iniziano a diffondersi mormorii di impazienza. Mi rendo conto di indossare uno smoking di alta sartoria. Al collo un papillon rosso, tra le mani la scatola ricevuta poco prima dalla scimmia.
The show must go on.
Tolgo la giacca del completo e rimbocco la manica destra della camicia. Il laccio di gomma stretto intorno al braccio. L’ago trova la vena come una vecchia amica.
La folla esplode in un tripudio di applausi. Cala il sipario.
Bip……. Bip……. Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip
Buio