PEZZI DI DADAS III

di Venereo Rocco - News Editoria Visual

[Senza Titolo]

Michele Boscagli – Dadas#0
DADAS0_Michele Boscagli_Senza Titolo
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“LA CHIOCCIOLA”

Venereo Rocco – Dadas#1

 

Ci siamo conosciuti alla Ca’ Rovella, il consorzio di bonifica del distretto Brenta Est, dalle parti mie.
Era un lavoro per poveri stronzi, galleggiare tutto il santo giorno e pure d’estate, col sole che ti pituffa la nuca, su ‘sto strafanto di zatterone a motore, a cavare tronchi, strappare gramigna e rasare canneti, da ponte a ponte, senza il permesso di attraccare prima di aver finito il pezzo di argine. Uno schifo.
Per me, dico, che son gatto di borgata, e il pelo mi s’arruffa al solo sentire <<Brenta!>>.
Ma ‘Vise…’Vise ci sguazzava.
Era un airone. Un ardeide, per la precisione. Un gambe lunghe insomma, tant’è che le volte che smiagolavo irreprensibile contro il caldo, le zanzare, la paga, lui arrivava sempre a mollare il timone e a piazzarsi, ritto su quegli stecchi, sul bordo del legno, e dopo aver fissato per qualche secondo il Brenta verde rancido, quella broda calda di minestrone avanzato, piegava il collo all’indietro e si lanciava nell’acqua dritto come un siluro, fin quasi alle zampe, riemergendo con
un persico infilzato nel becco. E me lo lanciava dietro, capito come? E mi faceva pure, con quella faccia senza sentimenti che hanno i piumati, tienti occupata la bocca, randagio!
Neanche lo friggesse Gesù Cristo in persona, figlio bastardo di una trapunta e di un lampione, gli rispondevo, e allora si calmava e si girava una verde. Zago boia, l’unico privilegio del lavorare sullo zatterone era lavorare da soli: i capisquadra non erano pagati abbastanza per sopportare tutto quell’umido; vien da sé, si andava di verde da mattina a sera.
E posso dirvi? Grazie al cielo, perché senza ‘Vise diventava un vero contropelo.
Tutte le mattine per prima cosa controllava l’attrezzatura, e ne avevamo un bel mucchio per le mani: decespugliatore, sega a motore, cesoie, roncole, reti…è chiaro che i colleghi del turno prima non si sprecavano a cambiare il filo della testina o a rabboccare il serbatoio, ma pace, ci pagavano davvero una miseria. Per lui no, per lui era personale. Per ‘Vise, se mancava il filo del decespugliatore, era il Walter che cercava di metterci in cattiva luce agli occhi del capo, e vedrai, mi gracchiava dietro, se alla prossima stagione ci rinnovano il contratto. E se mancava la nafta, era da un po’ che notava il Bilo trafficare alla colonia delle nutrie immigrate, e vai sicuro che gliela pagano a prezzo di mercato. Vai sicuro, mi diceva, che quando lo sgamano farà i nostri nomi.
Era un calvario. Ogni maledetta mattina, per dieci stagioni, ripassava i macchinari alla ricerca delle prove di un crimine capitato solo nella sua testa, ma reale per lui come un mandato di perquisizione. Senza tregua, povera bestia, e senza mai un abbaglio perché la natura lo aiutava in questo: gli aironi vedono meglio d’un falco affamato.
A metà della giornata, dopo essersi lamentato anche dell’ossigeno, e dopo aver controllato pure nelle mutande del papa, entrava in cabina e si girava una verde, e io, che fino a quel momento tenevo la barra, puntavo lo zatterone all’argine destro e spegnevo il motore. E me lo gustavo sedarsi tutto d’un fiato, con i buchi delle narici che diventavano comignoli, finalmente muto, il cervello parcheggiato, la sagoma afflosciata sul sedile di coperta. Tutte le mattine, per dieci stagioni, dopo avermi passato la verde, puntava contro di me i suoi occhi gialli, e con voce rotta
ripeteva che vorrei tanto partire, Zoba, andarmene su una spiaggia a Nairobi e non pensare più a niente. Ma anche lì, tutti cercherebbero di fottermi, e a cambiar paese non cambi le bestie.
Sapevo poco della vita di ‘Vise, ma doveva essere una pena.
Vuoi per misericordia, vuoi che non tutte le serate son buone per scroccare ombre all’osteria, capitava di deviare dai miei soliti giri e di bussare alla sua garzaia.
Era un monolocale largo quanto una lattina, con un bagno e un salotto-cucina-camera da letto.
Quest’ultima, nient’altro che un trespolo appeso al soffitto. Le persiane le trovavo sempre abbassate, giusto qualche sfesa per far entrare la luce, e non c’era mai stato né un televisore né una connessione internet, ma solo un vecchio giradischi tirato a lucido.
Arrivavo con una bottiglia di Nardini, e aspettavo il secondo bicchiere per osservarlo avvicinarsi al baule in vimini con la collezione di trentatré giri dei suoi amati Jarrett, Baker e Davis, appoggiarne uno sul giradischi come fosse un crocifisso, e abbandonarsi a dei sermoni estatici sulle scale, le contro-scale, i toni alti e bassi, le chiavi, le improvvisazioni, e io non ci capivo un dritto ma mi godevo la grappa e quelle note blu, che mi riportavano alle disgrazie di un gatto di
borgata, randagio e diseredato, il cui mondo finisce dove finisce la strada che l’ha visto nascere.
Proprio come certi uccelli migratori usciti di testa.
‘Vise aveva una cura per i suoi vinili che pareva averli partoriti e covati fino alla schiusa. Faceva questa cosa, in grazia di quegli occhi straordinari, riusciva a distinguere i solchi incisi sulla superficie dei trentatré. Per questo, più che ascoltare, ‘Vise vedeva la musica: alzava la testina del braccio, si metteva di sbieco, e sapeva indicarti il punto esatto dell’incisione in cui attaccava
il sassofono, o dove finiva il contrabbasso.
Che io spesso finivo per afferrargli il becco e inchiodare ai miei quel paio di microscopi, a fargli presente che caro il mio ‘Vise, hai testa, hai cultura, puoi vedere la scoreggia di una pulce in una notte di nebbIa, santa madonna! Che cazzo ci fai al Consorzio di bonifica Brenta-Bacchiglione?
Ma lui duro, saliva sul trespolo, ficcava la testa nel collo, e rimaneva lì fintanto che non mi sentiva uscire. Del resto quando il ‘Vise si riabbottonava non c’era molto altro da fare. “…e a cambiar paese non cambi la bestia”.
Anja lo cambiò, la chiocciola che pescammo dal fiume quella notte.

Era estate, venivamo da un turno rovente di otto ore, e rientrato alla Ca’ Rovella desideravo solo un climatizzatore e una birra gelida. Quella notte qualcosa ci trattenne: un tonfo, assordante nell’argine deserto, troppo forte per confonderlo con le nutrie della colonia.
Ricordo che correvo torcia in mano fianco a fianco a ‘Vise verso l’acqua,  implorando Cristo Gesù che non capitasse un altro bagnante notturno in vena di raggiungere il Creatore, zago assassino, che poi era da chiamare il soccorso fluviale, i vigili del fuoco, i capei, e dopo aver fatto l’alba a riempire carte ci sarebbe toccato pure ripescare il morto. C’era un cumulo nero sulla riva, alto una balla di fieno: una massa, viscida e gelatinosa, reggeva una maestosa spirale di calcare in strisce di candido puro e nero pece, concentriche, che nell’oscurità saliva e scendeva con l’anda del respiro di chi ha perso i sensi. Non si era mai visto niente del genere da quelle parti.
È una chiocciola, disse ‘Vise.
E si, anch’io come voi rimasi a bocca aperta.
Chiocciole di quella stazza esistono nelle favole, ‘Vise, nei sogni dei tossici e dei matti. Eccoci qua.
‘Vise insisteva: i suoi vecchi, che avevano girato il mondo, raccontavano di colonie di chiocciole giganti a Est, nelle foreste dei Balcani, e oltre ancora fino alle steppe della Mongolia. Quella disgraziata doveva aver fatto parecchia strada.
Con l’ultimo fiato rimasto aiutai ‘Vise a caricarla sul Transit.
Il giorno seguente venni a sapere che era conciata male. L’ultima parte della valva, da dove fuoriusciva il suo corpo, mancava per intero, e si potevano distinguere il polmone, lo stomaco, il rene, penzolare dentro la conchiglia. Il resto di lei, un salsiccione grigio-verdastro con quattro appendici sul davanti, sembrava una prugna dimenticata su una lamiera a Ferragosto. Alla garzaia fece tana nella vasca da bagno.
Da quella notte nel fiume ci volle quasi un anno prima di riuscire a rivederla, perché ‘Vise proclamò la quarantena in tutta la casa. Una ferita aperta, i peli, i germi…tutte le stronzate che mi raccontò quando l’unico suo pensiero era la finanza e il fatto di nascondere una quantità penale di verde nel bilocale, oltre ad una clandestina senza documenti, e allora sai Zoba, metti che ti ritrovi i canarini dietro la coda, metti che trovano il mio contatto in rubrica…come se lui fumasse le MS, quel fariseo figlio di cagata. Ma in effetti avevamo ripescato Anja senza alcun
bagaglio con sé, neanche un cambio, e visto che il tuffo le aveva rotto la memoria a breve termine oltre alla conchiglia, non aveva idea di com’era finita nel Brenta.

Sapete la cosa che mi fa uscire di testa? Che nelle dieci stagioni in cui ho frequentato quello psicopatico non l’ho mai visto farsi sotto con una volatile, ma la prima mollusca mezza morta ripescata dal Brenta, zago brigante, se la porta nella vasca da bagno.
Non che abbia nulla contro gli accoppiamenti interspecie, che per me uno si può scopare pure i rettili, ma se vuoi mettertela in casa almeno resta sullo stesso phylum!
Tipo, lo sapevate che le chiocciole sono miopi? Riescono a mettere a fuoco i primi centimetri, poi non distinguerebbero un Cristo da una staccionata. Sono lente, sorde e non vedono i colori.
Il tatto, ecco, quello è il loro forte: le due appendici più corte sono così sensibili che i suoni, i sapori, gli odori e un sacco di altra roba passano per quelle antenne e in alta risoluzione, ma da una distanza che non supera il braccio.
Ora, immaginate di poter avere a che fare solo con ciò che si trova alla portata delle vostre zampe: quanto vi perdereste del mondo? Pensate alle cose grandi: grattacieli, cattedrali, treni, aeroplani; Anja non aveva modo di dargli un senso compiuto. Pensate a ciò che è veloce: Anja non conosceva la bicicletta, l’automobile, internet o la messaggistica istantanea. Non aveva il più misero concetto di progresso tecnologico o di rivoluzione digitale, e pure il significato di
rivoluzione era troppo svelto per lei. La sua realtà era una biglia grande un’utilitaria che rotolava sopra un prato; non esisteva nulla al di fuori del vetro.
Dentro il vetro, invece, esisteva un universo. Quelle antenne ricevevano ad una lunghezza d’onda più ricca, più profonda, di cui i nostri sensi non hanno il minimo sospetto. Se le appoggiava su di un prato, poteva percepire la zolla in tutta la sua esistenza, dalle specie di foglie che avevano formato il suo humus a ogni essere vivente che l’aveva calpestata, o attraversata, e quando; e alla sua carne viscida e priva di pelle arrivava il mormorio delle placche tettoniche, il sapore del vento, il canto delle piante durante la fotosintesi.
Questo per dirvi che conversare con una chiocciola è una faccenda decisamente complessa.
Aggiungeteci che nel parlare sono lente, ma lente, vi dico, che Anja impiegò due giorni per presentarsi, e vi farete un’idea di quanto i nervi di ‘Vise, già non proprio sani, dovettero sopportare durante quei primi mesi di conoscenza.

Tennero botta, in qualche modo. Rimase in ascolto, per ore, per giorni, in quelle conversazioni impossibili in cui segnava su di un taccuino vocale dopo consonante dopo vocale, tanto che al lavoro, vuoi per la stanchezza, vuoi per altro, si era decisamente dato una calmata.
Capiamoci, continuava la sua campagna di anti-sabotaggio dell’attrezzatura del consorzio, ma senza la solita smania, non aveva più energie per quella. Pareva quasi non crederci più. Il suo sguardo stava passando dai mille sospetti sparsi sul legno della zattera allo stretto orizzonte del Brenta, dalla parte della corrente, dove puntava i suoi binocoli gialli come a cercare un codice, un significato, una musica.
Fu uno dei primi giorni d’inverno quando il ‘Vise, dopo un turno in cui non aveva spiaccicato verbo, mi chiese secondo me da dove venivano le chiocciole.
Gli risposi che avrebbe potuto farsi accompagnare da Anja, un giorno.
Lui sbuffò, in quel modo che hanno di sbuffare i piumati che non si capisce se hanno le balle girate o sono soltanto tristi, e aggiunse che Anja non sarebbe più uscita dalla vasca da bagno.
Aveva un buco largo un tombino nella parte terminale della conchiglia, le cure di ‘Vise le avevano impedito di fare infezione. Ma non stava morendo per quello. La questione era più sottile, di una sottigliezza apprezzabile nella maniera che hanno le chiocciole di stare al mondo, e nella maniera in cui le chiocciole costruiscono la propria casa.
Per noi felini le cose sono sempre state così, il nostro guscio dice poco noi. La pelliccia non parla delle mie domeniche a servire messa col nonno, o delle volte in cui fingevo di dimenticare il berretto in sacrestia per bermi il fondo del vin santo. Ecco, le chiocciole non funzionano così.
Nelle chiocciole, e soprattutto nella conchiglia delle chiocciole, c’è tutto quel che c’è da sapere. In quella spirale di alabastro dal diametro di un metro e mezzo, in quelle venature ricamate concentriche, c’era tutta la vita di Anja, dalla schiusa dell’uovo, al centro, fino all’ultimo respiro all’estremità. Tutta. L’esatta quantità di lattuga mai mangiata, la precisa mappatura di ogni centimetro quadrato in cui la sua bava l’aveva fatta scivolare, ogni volto, ogni singola parola udita e pronunciata; il compendio sistematico di tutte le idee, riflessioni, spunti, conclusioni, revisioni e opinioni pensate. E poi le vacanze del ‘93, i brufoli dell’adolescenza, la prima sbronza di Slivovitz alla sagra dei narcisi, quella volta in cui la sorella più piccola stette a guardare mentre la nonna la sculacciava nella piazza del paese. Tutta la rabbia verso la madre, tutta l’invidia per le compagne di classe, tutto l’amore per tutte loro, la meraviglia, la curiosità per le cose del mondo.
E quell’enormità di informazioni, che scritta su un foglio avrebbe percorso svariate volte la distanza tra la Terra e la Luna, era incisa naturalmente in microscopiche fenditure che solcavano l’intera superficie della spirale, proprio come un trentatré, un gigantesco trentatré la cui melodia descrive ogni infimo dettaglio dell’esistenza di un individuo.
‘Vise, che per i trentatré aveva occhio, si accorse presto della faccenda, ma non disponendo di un giradischi gigante per chiocciole cominciò a studiare la valva di Anja, per giorni, per mesi, per tutto quel lento inverno che a passarlo tra gli argini pare durare il doppio; e alla fine dell’inverno era un airone finito.
Era così secco che stava su per grazia degli ossi. Gli occhi gialli, vispi, quelli che ti metteva addosso e lo sentivi sfogliare la tua fedina penale, ora puntavano spenti il nulla, e avevano attorno un alone rosso acceso che nulla aveva a che fare con la verde. Aveva decifrato l’incisione di Anja, il suo LP. Guardando quella spirale per una quantità interminabile di ore, era riuscito a delinearsi nella mente la melodia, e la ascoltò, mi disse, una musica speciale, difficile da descrivere a parole, la sinfonia del Creatore, così la chiamò, che quando l’ascolti, quando riesci ad ascoltarla, è come la canzone che mandava la radio la prima volta che hai fatto
l’amore, o il motivetto della pubblicità in onda alla tv ad ogni singola cena in famiglia, o ancora quella stonata a squarciagola coi primi amici alla prima gita scolastica, cosicché, alla stessa maniera di quelle melodie rimaste nel cuore, questa le racchiudeva tutte, per tutte le occasioni, e ascoltandola salivano a galla i ricordi di una vita intera.
Capite da voi che, per Anja, quella conchiglia era davvero tutto. E che la morte del corpo era questione secondaria rispetto al proprio oblio. Perché la frattura di una qualsiasi parte della casa significava l’annientamento di giorni, mesi o anni non solo dei fatti della sua vita, ma dei pensieri, delle sensazioni, delle emozioni associate a quei fatti, e con essa non perdeva un pezzo di valva, ma un pezzo di anima.
La valva era Anja. ‘Vise, ascoltandola, sapeva di lei tutto quel che c’era da sapere.

Non ricordava più da quanto tempo si era trasferito nel bagno. I piatti pieni di lattuga si accumulavano sui ripiani insieme a quelli vuoti delle sue cene, e nei calici incastrati tra le maglie dello stendino galleggiavano mozziconi di verde.
Fu alla fine di quell’inverno che una sera, mentre si massaggiava le pupille consumate, decise di concludere il trasloco: trascinò dentro al bagno tutto l’impianto, il giradischi con gli altoparlanti, e uno dei trentatré che più gli stava a cuore, Miles Davis, Kind of Blue. Poi, dopo aver alzato la testina, un momento prima di appoggiare il vinile, lo avvicinò ad Anja, o meglio, all’ingresso in
rovina della valva di Anja, la quale ormai da mesi non metteva la testa fuori di casa.
Fu un attimo interminabile. L’antenna, la destra, occupò lo spazio tra il guscio e il vinile e vi si appoggiò delicatamente; trovò il bordo, e lentamente, o meglio, più lentamente del normale, iniziò a percorrere l’incisione fino ad arrivare al centro. E ‘Vise, che pure lui ormai da mesi non apriva bocca, attaccò il consueto sermone sulle scale, le contro-scale, i toni alti e bassi, le chiavi, le improvvisazioni, amplificandolo con saltelli, frulli e svolazzi, perché allora non era sicuro di quanto poteva capirne di jazz una chiocciola venuta dall’Est, ma certo avrebbe
compreso quanto Kind of Blue era importante per lui.
La mattina seguente la lattuga era sparita dai piatti. Nella valva, sopra il bordo frastagliato della frattura, si era accumulato nottetempo uno strato di calce. Sullo strato un’incisione, che proseguiva senza salti in linea con la precedente, cantava di un buffo airone che odiava il mondo ma amava la musica, e che una notte d’estate non aveva esitato a portarla in salvo da un brutto destino.
‘Vise era tornato in sé. Gli occhi, più gialli che mai, mi si incollavano addosso in modo quasi inquietante. Appena svoltata la curva che lasciava la Ca’ Rovella alle nostre spalle si lanciò sulla barra e mandò in secca lo zatterone. Ignorò le batterie di santi che dal paradiso gli scagliai addosso e, dopo avermi raccontato tutta la storia, mi chiese, borbottando, tossicchiando, se potevamo prendere in prestito lo zatterone per una gita fuori porta.
Restai senza parole. Lo squadrai, gli feci ripetere l’ultima frase, lo squadrai di nuovo, quindi presi a ridere come se fosse la mia ultima risata.

Era una domenica di fine inverno, e gli argini non erano ancora calpestati dalle mandrie di gitanti.
Dalla cabina, dove menavo la barra e mi nascondevo dalla flagranza di reato, mi gustavo lo spettacolo di un airone e una chiocciola uniti per la zampa, scusate, la zampa e il tentacolo, seduti sul bordo del legno, mentre Blue in Green diffondeva per gli argini gli ultimi spiriti d’inverno, una nenia d’addio ai giorni corti e ai cieli tersi, agli scheletri degli alberi che ancora oggi, ancora ci crediamo, ci illudono che sia arrivata la fine.
Ma già sentivo rimescolato dagli spruzzi dello scafo un odore frizzante, l’odore di centinaia di germogli che iniziano a spingere, e bastò poco, il primo caldo di un sole in avvicinamento, due merli all’inseguimento tra le foglie morte, zago porco, mi prese una smania di lanciare il motore a sfonda-giri fino a Venezia, all’Adriatico, e poi perché no, al Mediterraneo, e a quel punto osare l’Atlantico per naufragare inevitabilmente nell’atollo canarino dove le mammifere isolane non hanno mai visto un gatto di borgata.
Attraccammo, invece, in uno stretto pontile vicino alle chiuse di Strà, dove il Brenta curva brusco per attaccarsi al Bacchiglione, e una radura circondata dai pioppi si nasconde alla vista di entrambi gli argini. Lì ci accampammo con un Rabosello e un piccolo braciere, e ‘Vise infilzò persici a sazietà.
Anja era molto cambiata dall’ultima volta che ci eravamo visti, quasi un anno prima, sulle rive di quello stesso fiume: il salsiccione aveva guadagnato massa e volume e brillava del verde delle foglie di salvia; neanche si notava la fasciatura sulla conchiglia. Vuoi per la verde, vuoi per tutta quella storia assurda, mi ritrovai a vederla bella, a veder belli entrambi: ‘Vise era uno spasso, ansioso come poche volte, saliva su per l’argine ogni cinque minuti per assicurarsi di non
scorgere gitanti in arrivo, e Anja lo braccava coi tentacoli.
Trovò pace tra il terzo bicchiere e il secondo tiro. In piedi e ammollo nel Brenta, appoggiato al tronco di un pioppo nero, beveva e fumava e guardava dritto quel punto, sempre quel punto, tra il cielo e il fiume, che se lo guardi abbastanza a lungo il secondo dilaga nel primo e viceversa.
Prese a parlare dei suoi vecchi, gli antenati aironi, di quel che raccontavano tornati dai viaggi nelle afriche. Parlò di laghi gemelli che parevano gli occhi di una bellissima, gigantesca signora, di catene montuose che ricordavano antiche bestie addormentate; di come ti sballava l’aria rarefatta, che al tuo compagno di viaggio potevi dirgli tutto, anche i peggiori segreti, alla fine del viaggio sarebbe diventato tuo fratello. Di quant’era bello il mondo da lassù, ancora, nonostante
le schifezze che avevano accumulato le creature, tanto che era difficile immaginare le menzogne, le ipocrisie, la falsità che aspettavano loro una volta atterrati. E Miles Davis continuava ad andare, per tutto il tempo, tutta la raccolta.
La domenica successiva toccò alla laguna della Boschettona e al “Koln Concert”. Poi alle giare di Mira con “Once upon a summertime”. Ogni gita era un trentatré, ogni trentatré una storia di luoghi lontani.
Neanche il muratore dell’Altissimo avrebbe fatto un lavoro migliore. Il guscio nuovo, scrosciando dal bordo come l’acqua verso lo scarico, occupò tutto lo spazio della frattura. Non una pialla, non un dito d’impasto, solo la ciccia più vergine dell’anima di ‘Vise inoculata in Anja a spremerle le ghiandole calcifiche.
Era primavera inoltrata quando raggiungemmo Pellestrina. ‘Vise aveva caricato sulla barca un paio di valigie e una scatola, vuota, di cartone. Per ultima scese Anja, questa volta adagiata su di un materasso sopra ad un transpallet. Era la prima volta che la vedevo su di un transpallet.
Sulla spiaggia, stappammo un Merlot e girammo una verde, e la testina percorse tutto il trentatré di Kind of Blue fino ad arenarsi nel centro. Quindi ‘Vise infilò il vinile nella custodia, recuperò la scatola di cartone e ficcò tutto dentro insieme al giradischi. Mi chiese di tenerlo.
Andavano a Est, in cerca del villaggio di Anja. Da quelle parti le persone sono parecchio affidabili, mi disse. Con quella faccia da piumato, non capivo se faceva sul serio o continuava a sfottermi, per entrambi i casi lo mandai al caldo. C’era un vaporetto sulla spiaggia, a qualche metro da noi, e non l’avevo visto arrivare.
Mi congratulai con Anja per la guarigione, e anche per la memoria riacquistata. Ma ‘Vise questa volta sghignazzò, non c’era dubbio, e mi spiegò che non aveva riacquistato niente, il ricordo dei giorni antecedenti il suo naufragio era perso per sempre. Dove c’era la frattura, nel guscio nuovo, ora c’erano Anja e ‘Vise, le loro stagioni nella valle del Brenta, sicché quando ‘Vise ascoltava la spirale di lei lungo tutta la sua esistenza finiva per ascoltare se stesso, la propria musica, il suo totale.
E sai, mi spiegò, io un viaggio del genere non lo affronterei per niente al mondo, ma quel tizio nella conchiglia pare che se la senta.
Rimasi sulla spiaggia con il fondo del Merlot, finché il vaporetto divenne un puntino nel blu, e sparì anche lui.

Quindi eccomi qui, seduto all’osteria, a raccontare di Anja e ‘Vise a dei signori gabbiani come voi, secondi a nessuno, neanche agli aironi, per numero di diottrie. E di certo se vi fosse passata davanti una coppia così assortita l’avreste bene in mente.
Ma le vostre facce non hanno tradito nulla durante la mia storia, sicché temo proprio che non siano scesi. No, non è detto. Quei due son tutto men che scemi, e una chiocciola gigante attira l’attenzione quanto un faro. No, saranno sbarcati di notte. O meglio ancora in un anonimo scalo in qualche anonimo villaggio. A conti fatti, avrei potuto risparmiarvi tutta la storia.
Portate pazienza, è l’età. Un vita usurata da verde, ombre e maltempo, e quando trovo da sedere non mi rialzo più. Avrei dovuto farlo prima, questo viaggio, quand’ero ancora micio, quando l’umidità non mi entrava nelle ossa. Pace, certe cose non le decidiamo noi. Per muovere ‘Vise c’è voluta una chiocciola venuta dall’altra parte del mondo. Per me, ci vorrebbe un elicottero.
Avete mai sentito parlare di colonie di chiocciole giganti a Est, nelle foreste dei Balcani?

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La Premiata Agenzia Sviaggi

Collettivo basato sull’istinto estetico ri-creativo. Dal 2016, qui e ovunque nell’etere.