PEZZI di DADAS II
[Senza Titolo]
Alco-Line – Dadas#0
“FIABA SURREALISTA”
Legéria – Dadas#1
Guardo le montagne
e vedo un calice di azzurro
Triangolazioni di aperitivi
Aperitrivi
con ipotetiche ipotenuse
La Logica ha preso la montagna di testa
come un ariete
Nell’impatto è finita
dentro il mondo al contrario
Se nulla ha più senso
solo l’immaginazione ha il potere
Solo l’immaginazione al potere
e tutti gli altri fermi a sognare
C’era una volta o forse erano tre, due persone che vivevano in una città che non c’è.
Dovete immaginare un luogo senza un posto, come un panino al formaggio senza formaggio, forse si sono dimenticati di farcirlo, forse è buono anche così.
E infatti non si viveva male in una città che non c’era, per esempio non c’era traffico, e si camminava facilmente, poi a volte non c’era la strada ma in qualche modo ci si arrangiava. Se ci pensate era molto più grave quando non c’erano i soldi, o il lavoro!
Stando così le cose, vi chiederete, cosa possono sognare gli abitanti di una città che non c’è? Sognano tutto quello che ci può essere, e quello che non si sarà mai. In primo luogo, sognano altre versioni di se stessi, che forse credono migliori o peggiori, chissà. Ma soprattutto inventano, creano, smuovono le acque. Si danno appuntamento quando chiudono gli occhi e non c’è davvero più niente: in quel preciso momento possono finalmente immaginare tutti i tutti, tuttinsieme.
La nostra storia inizia la notte in cui queste due persone si sognarono a vicenda. Non era inusuale, capitava spesso a chi aveva una fantasia più elastica e una quotidianità irregolare di immaginare collettivamente con sconosciuti.
Per seguire la nostra storia onirica dovete immaginare una stanza curva piena di specchi di diverse dimensioni e forme, che ricoprivano tutto lo spazio spezzettando la linea dell’orizzonte. Sembrava di stare in una cupola sospesa o dentro un effetto ottico, come quando si infila l’occhio nel fondo del bicchiere.
In mezzo a questi scintillii, le vedete, ecco le nostre due persone. In piedi, mani sui fianchi, c’era Lotta Gonzalo, o Gonzalo Lotta, comme vuo’ tu. Pelosa come sono, mi hanno chiamata mille volte Gonzalo! – stava giusto spiegando. Bruna, minuta e innegabilmente irsuta, Lotta era nata da qualche parte nella remota provincia campana. In realtà mi chiamo Carlotta, ma non tengo la car! e se la rideva, di questa sua brillantissima freddura, con una risata roca e sommessa e gli occhi affilati, dalla pupilla quasi ovale.
Rideva in modo più composto l’altra figura, seduta a gambe incrociate, un tale Davide Golia, lungo e stretto, con i capelli bianchi imbrigliati in una coda e la faccia da ragazzino – son da Belluno. Figlio di emigrati veneti di ritorno dall’Argentina, il Sudamerica non l’aveva visto mai, sognato nemmeno.
Prima di cominciare, come è prassi quando si sogna con qualcuno, i due si presero un minuto per inventarsi, scelsero una possibilità da giocare in quel sogno e in quel contesto, diventarono ciascuno il proprio personaggio onirico. Mentre si immaginavano, tenendo gli occhi chiusi come dentro a un posticino tranquillo in cui prepararsi all’entrata in scena dell’improbabile, sentirono entrambi un senso di vertigine. La stessa sensazione di quando annusi un profumo troppo forte.
Riaperti gli occhi, si scambiarono le consuete formalità e saltò fuori che le loro identità erano inciampate l’una nell’altra: Lotta dichiarò di insegnare fisica a Longarone, e Davide lettere a Posillipo. Si sorrisero.
«E mo’ che dobbiamo fare? E’ un po’ strano che non succeda niente.»
Nel frattempo anche Lotta si era seduta a gambe incrociate accanto a Davide.
«Non saprei, di solito inizio subito a sognare quando sogno da solo! Però magari ci serve un po’ di tempo per capire cosa vogliamo fare.»
«Ma tu veramente pensi che siamo noi a decidere? Nei sogni con sconosciuti puoi scegliere chi impersonare ma il resto è tutto casuale, è come se noi stessimo nuotando nell’impasto dei nostri inconsci unito alla nostra capacità di immaginazione…ma mica è la tua prima volta?»
«No ma va’, ho sognato un sacco di volte con i miei fratelli!»
«Che c’entra»
«E con la mia ex.»
«Vabbuò ho capito, mai con chi non conosci. Mi sbaglio?»
Davide abbassò gli occhi, senza del tutto capire per cosa sentirsi in colpa ma non riuscendo a trovare nessun’altra emozione a portata di mano.
«Sei la prima sconosciuta con cui sogno.»
«Mi sembrava che fossi un po’ troppo felice quando mi hai vista. Chi ti aspettavi scusa? Una cosa più tranquilla tipo la bambina che guardavi da lontano alle elementari?»
«Non lo so, io ho il sogno leggero, di solito sogno male. E non penso di averti mai vista, Gonzalo. Perché ho sognato proprio te?»
«Golia sto sogno parte male, te lo dico!»
«Aspetta, ma in che sens-»
Troppo tardi. Lotta si era infilata in uno degli specchi e aveva attraversato la superficie di cristallo come se non fosse solida, sparendo senza lasciare traccia. Davide rimase fermo, non sapendo bene cosa fare e cosa pensare, come in attesa che arrivasse qualcuno a spegnere le luci e spazzare via la polvere dal pavimento ora che lo spettacolo era finito. Se Lotta poteva riuscire a rimanere a digiuno quella notte, non valeva lo stesso per Davide, che aveva bisogno di sognare per affrontare un altro giorno nella città che non c’era. O almeno doveva provarci. Si trovò uno specchio interessante e lo usò per immaginare da solo.
Tuttavia Lotta non poteva sfuggire a quel sogno. Ogni notte, quando si rifugiava nella sua stanzetta che non c’era, e finalmente cominciava a sognare, si ritrovava nella cupola di specchi, accecata dai riverberi; e ogni notte, in mezzo a tutto quello sberluccicare spiccava la sagoma opaca di Davide, con indosso la stessa espressione rassegnata nel constatare che c’era ricascato un’altra volta.
«Puozz jetta’ o’ bbelén, qua stiamo? Ancora? Golia sta storia deve finire…»
«Eddai, Gonzalo, stavolta resta. E’ vero sono io ad averti sognata, ma se continui a tornare significa che tutto questo un senso ce l’ha.»
«Ma che senso deve avere, io stavo tutta tranquilla coi sogni miei e un matto diverso ogni tanto e mo’ devo ritrovarmi tutte le notti che zia Natura ci manda n’cap dentro questo brillocco di vetro tamarrissimo che ti ricorda i cristalli di neve delle tue cazzo di montagne…»
«Veramente pensavo che fosse opera tua la cupola, io non ho ancora davvero capito perché sono qui dentro con te ogni volta.»
«Apposto, quindi non hai fatto un minimo di autoanalisi per propiziare la tua occasione quando ci incontriamo? Ma tu sei sicuro di essere nato e cresciuto nella città che non c’è? Sei sicuro di sapere come si gioca a sto gioco? Ma in che casino mi hai messa? Ti dico solo che sto per perdere il mio lavoro che non c’è, non dormo più, non sogno più.»
Ancora una volta Davide non ebbe il coraggio di guardare Lotta negli occhi, quelle iridi gialle avevano il potere di metterlo vagamente a disagio, come davanti ad una poesia troppo cruda e insieme struggente.
«Gonzalo, io non so cosa dobbiamo fare, ma so cosa possiamo fare: sederci qui e aspettare, provare a immaginare altro, a me prima…per esempio…mi era parso di vedere una cosa in quello specchio»
«Che cazzo dici mo’, lo sapevo che te ne uscivi con una cosa del genere, tu in sto casino di riflessi col tuo occhio di falco vedi quale specchio quaaale Sant’Euclidea aiutami tu!»
«Ma sta bona, quella specie di mattonella triangolare che sporge dal pavimento. Lo vedi che sta sospesa di un paio di dita? E’ come se ci fosse sotto un magnete»
«Golia tu forse non hai capito che insegno fisica a Longarone in questa dimensione.»
«E quindi?»
«E quindi mi sembra evidente che questa coincidenza non sia casuale, e che forse stiamo finalmente sbloccando qualcosa in questo hangar del voyeurismo! Mo’ zitto che devo osservare.»
Lotta si accovacciò fino a sfiorare con il naso la punta dello specchio. Era triangolare, equilatero, un perfetto esemplare da sussidiario di geometria. La punta indicava verso l’ombelico di Lotta, che si alzò e provò a muoversi. Come la lancetta di una bussola, la punta dello specchio la seguì, qualsiasi cosa potesse significare in uno spazio senza senso come quello in cui si trovavano. Si accovacciò nuovamente.
«Non può essere che sta cosa mi punti giusto?»
«In che senso?»
«Golia perfavo’ stammi al passo, lo hai visto che sto specchio mi sta letteralmente puntando no? Per carità non penso che voglia attaccarmi però»
«A me sembra un pube»
«Cos-»
«Sì un pube, un bel triangolino specchiato, quasi sexy.»
«Ah, quindi stai già a quel livello di infojatezza?»
«’Scolta, sta’ calma, dico solo che simbolicamente il triangolo a punta rovesciata è assimilabile al cuore della femminilità, o sbaglio?»
«Intanto il fatto che tu mi spieghi la femminilità mi sta facendo partire un vaffanculo di quelli storici»
«Okok diocaro ho capito mi arrendo dimmi te che ne pensi»
«Che hai ragione, che in mancanza di altri dati sembra proprio il triangolino di una vulva, che punta verso di me perché»
«Punta anche verso di me»
«Ma no, ma che dici, guarda che ci sarà un effetto ottico, allontanati»
«Oh te digo che»
Un’altra zampata degli occhi di Lotta bastò a far tacere Davide.
Ed eccola che si era di nuovo spalmata a terra, guancia a guancia con il riflesso silenzioso della sua riflessione in corso, mentre la punta del triangolo puntava a tutti gli effetti verso di lei, ma, contemporaneamente e incredibilmente, anche verso Davide, seduto a gambe incrociate che si attorcigliava una ciocca di capelli bianchi intorno all’indice.
«Ma sai che potrebbe essere un banale effetto ottico?»
Lotta si ribaltò sulla schiena come un grosso scarafaggio: da quella posizione le era più comodo alzare gli occhi felini al cielo. Cioè, a terra.
«Golia ti giuro che se continui a spiegarmi quello che ho studiato e insegno io veramente me ne vado»
«Scusa Gonzalo non intendevo questo, è che sto cercando di capire perché ci siamo imbattuti in uno specchio che ci fa questo effetto»
«Sia lodata Maria Giovanna, stai iniziando a collaborare!»
«Eh dicevo»
Veramente adesso vorrei parlare un po’ io.
Una voce cristallina. Lenta e calma.
Volete sapere quale avventura vi aspetta in questo sogno, e io ve lo dirò. Volete sapere chi sono.
Una pausa che sembrò un sorriso sornione.
Io sono lo specchio che ti dice quello che vuoi sentirti dire. Non leggo esattamente nei vostri pensieri, leggo nelle vostre emozioni. Ora siete curiosi, un po’ sorpresi ma anche eccitati, leggermente infastiditi – questo reciprocamente – Lotta in particolare sente di volersi acciambellare a terra perché le piace il suono della mia voce.
«Ua è bellissima infatti volevo»
Lo so cosa vorresti, e te lo dirò. Avvicina la tua pancia a me.
«La mia pancia a cosa?»
Sono lo specchio che ti puntava. Non c’entra niente la concezione fisica di basso e alto, banali prospettive. La mia forma è questa e sì, Davide, è una forma che associ ad un pube femminile, ma io non sono femmina. Funziona in modo strano l’inconscio, sapete? Persino io che sono una sua creatura non ne conosco tutti i misteri. Mi chiamano Forma Matrice. Il mio ruolo, il mio potere, è quello di dirvi quello che volete sentirvi dire, come se foste figli miei. Ma io non sono vostra madre. E tuttavia, se mi chiedete la luna, vi dirò che andremo a prenderla.
«Quindi non dici la verità?»
Golia sembrava un bambino anziano, con gli occhi sgranati sotto le folte sopracciglia bianche.
No Davide mi dispiace, non ti è ancora chiaro il mio funzionamento. Il mio potere è quello di assorbire la luce e l’ombra delle tue emozioni per riflettere parole che ti conducano verso un’emozione positiva, in un certo senso io miglioro la luce di una tua fotografia emotiva. Tutti noi funzioniamo così, ma ognuno a suo modo. Di certo io sono più piacevole da avere di fronte rispetto a mio fratello, ma avrete tempo per scoprirlo. Nel frattempo, ti dispiacerebbe avvicinare la tua pancia a me cara? Ho bisogno del tuo aiuto e posso dirlo solo al tuo ombelico.
Lotta era ancora accoccolata a terra. Le bastò scivolare in avanti fino a far incastrare il vertice dello specchio con il suo ombelico. La punta era smussata, e si adattava perfettamente alla curva inferiore di quella cicatrice ovale. Non appena Forma Matrice parlò di nuovo, Lotta si sentì vibrare tutta.
Ho bisogno del tuo aiuto. Per millenni ho vagato di stanza in stanza, servendo re e condottieri che temevano debolezza e sfortuna, nobildonne che avevano paura della morte e della solitudine. Ho sempre svolto il mio compito con spirito di servizio. Ho sempre detto alle persone ciò che volevano sentirsi dire, le ho incoraggiate, lusingate. Ma sento che le ho anche illuse. Ho bisogno che tu esponga il mio doppio volto, riveli quanto vacua è una lusinga, quanto velenoso è il mio potere! Trova la chiave e aiutami, Carlotta Gonzalo!
Lotta si rialzò frastornata, ancora non del tutto certa di aver capito bene le istruzioni.
«Allora Gonzalo, che ti ha detto? E che hai in mano?»
«Golia ma sant’Arcangelo Trimone, puoi darmi un minuto di tregua? Non ho niente in mano, non ho-»
Si interruppe quando vide che, in effetti, era costretta a dar ragione al suo compagno di sogno. Nella mano sinistra aveva una sorta di pugnale, la punta riluceva come una stalattite rossa, ma era curva come una mezzaluna. Sentì che nelle vene dei suoi polsi riverberava la vibrazione creata dalle parole di Forma Matrice. Cos’era? Paura? Vertigine? Oh no, molto più semplice: era rabbia. Il suo sguardo tornò sullo specchio, che sembrava talmente liscio e pulito, così invitante. L’unica cosa che voleva fare era spaccarlo in due, e così fece.
A prima vot c’eggiu ncuntrat a raggia
era grazie a te, mammà
e mo’ ca ce pienz
pure la seconda.
Pure a primma vota c’agg ritt na bucia
era a te, mammà
poi so addiventat brav
che t’ho dic a fa’.
Ma a primma vota ca m’egg sentut inadeguata
non ero ij, eri tu int’o spiecchie,
ennò, non è semp comm ric tu
io sto cunto e’ ppaura
nun m’o raccont’ cchiù.
«Gonzalo ma che hai fatto?! Come facevi a sapere le parole dell’incantesimo?»
Dalla fenditura stava colando un unico grumo di sangue rosso scuro, che subito si faceva crosta nera, spargendo intorno un odore sulfureo. Lotta si voltò verso Davide con gli occhi lucidi. Così non incuteva più soggezione.
«Non so come ho fatto, Golia. Ho cantato una canzone che non c’era, eppure ce l’ho sempre avuta qua.»
«Ma qua dove, mi son preso paura, te sei più matta di un veronese! »
«Non lo so qua dove, mi sa che è un dentro, un dentro generico. Ma solo perché è il succo concentrato del fuori.»
«Sei te che si fora, ma di che cazzo stai parlando?»
«Lascia perdere, che ne sai te di nuova fisica emotiva contemporanea…Piuttosto, come sta Forma Matrice? Forma Matrice, mi sente?»
Lo specchio non rispose. Stava già svanendo, e portandosi dietro il resto dello spazio, come una tovaglia tirata via dalla tavola. L’ultima cosa che vide Davide prima di svegliarsi fu una scintilla di luce sulla punta del pugnale.
Il giorno dopo rischiavano quasi di non esserci nemmeno loro. Assenti, rapiti, si trascinarono nelle ore di veglia tra una spiegazione che non c’era, l’appetito che non c’era, e del resto non c’erano nemmeno l’uno per l’altra. Tuttavia si scoprirono entrambi curiosi di vedere cosa sarebbe successo al chiudersi degli occhi.
«Dio bono Gonzalo, mi hai spaventato ieri! Ma che cazzo è successo?»
«Allora, ti dico che idea mi sono fatta io: questa era tipo una prima prova, ok? Forma Matrice parlava di altri specchi, quindi immagino che in questo o nei prossimi sogni vedremo gli altri.»
«Ma quanti ne sono? Quante altre notti così ci aspettano?»
«Golia, ma c’aggià penza’, che non hai piacere a compiere quest’impresa con la mia collaborazione?»
«Non l’ho mai detto. E in ogni caso finora hai fatto tutto tu…»
«Seee che dici, benedetto Pazienza dal Tronto! Sono convinta che il prossimo toccherà a te.»
«Vediamo. Intanto era molto bella quella poesia che hai cantato ieri, non sono sicuro di aver capito tutte le parole ma mi piaceva il sentimento, il trasporto con cui le hai recitate»
«E sì, co’o pullmàn le ho dette! Per favore torniamo sul pezzo che se veramente tocca a te stasera tocca allacciare le cinture»
Dovreste sempre allacciare le cinture. Non potete nemmeno immaginare quanto sia rischioso mettersi alla guida senza.
«Chi ha parlato?»
Davide si girò di scatto per trovarsi faccia a faccia con il suo riflesso, incastonato all’interno di un perimetro equilatero, come se fosse il quadro vivente del professore di lettere Davide Golia, appena appeso. A ben guardare, sospeso. Lotta incrociò le braccia.
«Secondo me è proprio quello specchio lì, sai?»
«Grazie Gonzalo, lo vedo bene anca da mi, sai?»
Davide ci riprovò.
«Chi sei?»
Sono lo specchio che ti dice quello che non vuoi sentirti dire. Mi chiamano Angolo Retto, io li lascio fare. Non tutti sono ben disposti quando si tratta delle mie fotografie emotive, in molti hanno provato a distruggermi, in un impeto di frustrazione o di rabbia; ma non possono farlo, sono indistruttibile. Li compatisco, ma non posso smettere per questo di perseguire la rettitudine. Sono fatto per aumentare il contrasto delle vostre emozioni, farvi sentire peggio di come state. Non è facile come può sembrare, sapete?
«Infatti non mi stai molto simpatico, amigo.»
Lotta non era riuscita a trattenersi.
Nemmeno tu stai simpatica a tante persone. Col tuo carattere non riuscirai a farti amare davvero da nessuno.
«Non lo ascoltare Lotta, è come con Forma Matrice, non dice il vero.»
Non importa che sia vero quello che dico, ci cascate tutte le volte. Anzi, se proprio lo vuoi sapere si tratta di un lavoro monotono, voi umani avete sempre le stesse misere insicurezze, da sempre. Per questo sono stanco anche io di come sono, come mia sorella. Non voglio più fare del male alle persone, eppure non posso cambiare la mia essenza. Tu dovrai trovare la soluzione.
Davide aveva messo una mano sulla superficie rifrangente, era fredda. Temeva che il freddo potesse risalire dal polso fino a impadronirsi di parti di sé in cui non lo avrebbe mai voluto.
Che tu lo voglia o no mi aiuterai, Davide Golia.
«Perché io?»
Vediamo un po’. Perché sei sempre stato considerato un po’ scemo, uno strano, e a ragione. Sei fuori luogo in tutte le conversazioni, dici che ami il silenzio ma è perché non hai niente di interessante da dire. Dici che stai bene da solo ma poi ti vergogni quando hai bisogno di qualcuno. Ti piace la carta stampata perché è strutturata, a differenza dei dialoghi fuori controllo che abitano la tua testa. Devo continuare?
«Questo non è necessario, signor cazzo quadrato, la smetta! Davide, stai bene?»
Nessuna risposta. La mano ancora sullo specchio, Golia aveva chinato il capo, stavolta un poco a lato, come se fosse intento a guardare la versione migliore di sé che spariva da qualche parte, che forse non era mai esistita.
Lentamente, una lacrima iniziò a scivolargli da un angolo dell’occhio, e a precipitare seguendo una linea dritta, drittissima…e orizzontale. Lui nemmeno se ne accorse, ma era proprio così. Lotta guardava a occhi sgranati. Senza ombra di dubbio, la lacrima cadeva in orizzontale: adesso la linea d’acqua formava un perfetto angolo retto con la superficie verticale dello specchio. Al momento dell’impatto non si udì alcun rumore, ma la goccia restò intatta, dura come una biglia e intenta ad assorbire tutta la luce riflettente che aveva intorno, per restituire immagini completamente ribaltate e curve, come di una realtà gravida.
A quel punto Golia alzò la testa, e con un movimento meccanico staccò la mano dal vetro per puntare l’indice sulla lacrima, come se intendesse contrastare il gonfiore, ricacciare un ematoma sottopelle.
Io sono il rimatto da rilegare
Da relegare
Nella torre più corta del palazzo
Giullare alla propria corte
Acrobata sul filo di pensieri aggrovigliati
Sono il baucco descantato
mi sono schiantato e mi hai scansato
io ho un’ombra di libertà
da bere tutta d’un fiato
e sono sempre ubriaco
L’incantesimo era compiuto. La superficie si mangiò la goccia, lasciando in quel punto un rigonfiamento che incideva in modo irrimediabile sull’uniformità dello specchio.
Quella mattina la capa di Lotta non c’era e quindi non c’era altra scelta: era moralmente obbligatorio non fare un cazzo. No, in realtà provò a cercare qualche informazione in biblioteca sugli specchi, le sembrava troppo sensato il tipo di percorso che stava facendo con Davide, troppo diverso dalla sua esperienza di viaggio scriteriato nel mondo onirico. Provò a cercare un significato. Era disposta a inventarlo, se proprio non c’era. Forse, ma senza forse, c’era…Si ricordava che da bambina quando non c’era da mangiare, il padre le leggeva una storia molto simile a quella che stava vivendo ora da protagonista. O i veri protagonisti erano gli specchi? Ricordava la storia di un pittore disgraziato, che per una maledizione della sua stessa arte aveva avuto l’anima scomposta in tre specchi. Purtroppo il libro che cercava non c’era. Tanto per cambiare. In quei momenti Lotta si sentiva ruggire, e imprecava contro i compromessi continui che la città che non c’è imponeva ai suoi cittadini. C’era poco da fare, e di giorno ancora meno, allora cercò di recuperare dai suoi sogni passati almeno qualche traccia. Ricordava un divano viola e provava a ricostruire con i ricordi i profili di due fantasmi che si acciambellavano. Si ricordava che, tenendo il libro con due mani, il padre seduto faceva come un’anfora con le braccia. E in effetti negli anni aveva sognato tantissimi cocci e vasi, che strano, non aveva mai colto l’analogia. E quanto le piaceva sbucare con la testa da una delle asole! Come un dito da un tarallo. Adesso lo vedeva più chiaramente. Il padre teneva il libro sulla pancia, il naso di Lotta a una spanna dalle pagine. Quello che ricordava meglio era un’illustrazione, impaginata proprio accanto al gran finale di quella storia che non c’era più. Nel disegno i tre specchi si riflettevano l’uno nell’altro, sprigionando dei raggi di luce con le loro forme che si sovrapponevano come in un’eclissi. Tutt’intorno, la pagina era nerissima.
Quella notte, arrivò per prima Lotta. Non era sicura che fosse una buona idea raccontare a Davide dei suoi ricordi confusi. Non erano molto d’aiuto, del resto, così frammentari. Voleva comunque parlargliene. Perché questo bisogno di aprirsi? Si mise a specchiarsi persa nei suoi pensieri.
Davide comparve da dietro un angolo, qualsiasi cosa potesse significare nel capannone di cristalli in cui gli toccava stare, forse per un’altra notte soltanto.
«Eccoti, buonanotte Golia»
«Gonzalo, ciao. Senti per ieri…»
«Ieri cosa? Sei stato una bomba con quel trucchetto della lacrima antigravitazionale, hai arrevotato!»
«Sì ma il resto, le cose che mi ha detto quello specchio…»
Lotta fece un passo verso di lui. Cercò di guardarlo in viso, ma Davide si era di nuovo curvato, lanciando lo sguardo il più lontano possibile dalla traiettoria tracciata dalle pupille di lei.
«Quelle cose qui non ci sono. Io non le ho viste. Sei al sicuro con me.»
Davide sorpreso alzò di scatto la testa. Il tono, il calore di quelle parole, e in più pronunciate da Lotta, lo avevano colpito come un pugno sotto il mento. Un pugno che mirava a raddrizzargli la schiena.
«Beh, grazie»
«Cosa?»
«Per quello che mi hai appena detto»
«Ma chi ha parlato? Per una volta che sto zitta mi ringrazi pure!»
«Te digo che mi hai appena detto la frase che avevo più bisogno di sentirmi dire!»
Esatto. Perché questo è il mio potere. Sono il terzo specchio, l’ultimo. Non mi vedete, sono nascosto da altri e più piatti specchi. Perché sono quello più prezioso, forse il più utile. Quando mi hanno creato mi hanno chiamato Pharmakon, e sono lo specchio che ti dice ciò che hai bisogno di sentire. Chi si è specchiato in me ha potuto ascoltare una carezza all’anima. Io aumento al massimo l’esposizione nelle vostre fotografie emotive. Con me potete solo essere chiarissimi, e vedervi così, come vi vedo io. Ma non avrete altra chiarezza da me. Dovrete capire da soli cosa mi tormenta, e trovare il modo di liberarmi.
«Azz, è uno tosto questo! Ma dove sei? Io una sbirciatina la vorrei dare!»
«Ferma Lotta, se ti guardi rischi di essere sovraesposta!»
Molto bene, Golia, quel corso di fotografia in cui la macchina fotografica non c’era ha dato i suoi frutti alla fine!
«Ma chist è scem, Davide, tu ci stai capendo qualcosa?»
«Non temere. Se conti su di me, ce la faremo.»
«Oh Golia non scherzare, che è sta faccia che hai fatto!? Ma non è che Pharmakon ci sta…che ne so, possedendo?»
Respira, Lotta. Ve lo ripeto, io sono lo specchio che vi dice quello che avete bisogno di sentirvi dire. Io vi restituisco tutta la luce che non riuscite a raccogliere da soli.
Golia si illumina.
«È chiaro. C’è troppa luce. Dobbiamo farlo specchiare in una superficie opaca, così le persone potranno usarlo senza perdere il lume!»
«Ho capito il tuo piano! Ebbrav’a Davide, me si’ piaciut! Solo mi sembra nu poc complessa sta cosa di far affacciare uno specchio opaco su uno riflettente, ma da prof di fisica ti devo riconoscere che per fare silenzio visivo funziona.»
«Silenzio visivo? »
«Sì ja, hai capito quello che intendevo.»
«Sei tu che non hai capito, la trovo molto creativa come definizione. Non ti ricordi che insegno lettere in questa dimensione?
In realtà stavo pensando a tutt’altro. Sai chi ha usato uno specchio come arma prima di noi? Perseo, quando viene incaricato di uccidere Medusa. Sono gli stessi dèi ad armarlo, in particolare porta uno scudo di bronzo riflettente donatogli da Atena, proprio colei che ha trasformato Medusa e che perciò sa come neutralizzarla. Medusa è infatti l’unica mortale tra le sue sorelle, le Gorgoni.»
«Davide ma stai pazzienn, ti pare il momento per una lezioncina di letteratura epica?»
«Sta bona Gonzalo, arrivo subito al punto. Non so se sia una buona idea, ma potremmo provare a fare un incantesimo in suo onore. Penso che Medusa avrebbe bisogno di ascoltare una poesia d’amore, lei che ha dovuto pagare con una vita di solitudine e tormenti quell’unica volta in cui è stata sfiorata da qualcosa che assomigliava al sentimento.»
Lotta stava per replicare con una battuta, ma incappò negli occhi azzurri di Davide, sinceri nel provare umana compassione verso una creatura sfortunata.
«E jamm bell, proviamo sta cosa! Da dove cominciamo?»
«Per prima cosa dovremmo offuscare un controspecchio. Che dici, lo prendo circolare? Date le forme dei suoi fratelli, secondo me potrebbe benissimo essere questa la forma di Pharmakon.»
«Mi hai letto nel pensiero. »
«Bene. Però c’è l’operazione di offuscamento da risolvere. Così lucido riflette troppo.»
«Ah. Ok, beh ci sarebbe un modo facile per creare un po’ di foschia qui dentro.»
Nel lasciare la frase in sospeso, Lotta avvicinò una mano a quella di Davide.
«Hai ragione! Geniale! Proviamo!»
Risoluto, Davide afferrò la mano di Lotta e la tenne stretta mentre alitava più forte che poteva contro la superficie. Lei lo guardò sinceramente stupita, poi capì il gioco e puntò l’indice dell’altra mano sull’alone di umidità lasciato dal respiro di lui. Disegnò un fiorellino, che avrebbe potuto anche essere una testa stilizzata, circondata da serpenti aggrovigliati. Davide sorrise, e lo cancellò subito con un altro colpo di alito caldo. Sempre tenendosi per mano, come un mostro a due bocche, iniziarono a ricoprire di piccoli cerchi tutti i bordi dello specchio. All’inizio svanivano subito, poi iniziarono a permanere fino a formare uno strato sottile di nebbia abbastanza denso perché potessero scriverci sopra col dito. E questo è quello che scrissero
Medusa sei bella
ti guardavo negli occhi
mi hai sciolto
le gambe molli
sento lo stomaco contorcersi
al ritmo dei tuoi capelli
Medusa sono belli i serpenti che porti
torti ritorti aggrovigliati sciolti
Medusa sei bella ti bacio a occhi aperti
per vedere che effetto ti faccio se ti piaccio
coi tuoi occhi mi fendi mi fondi mi confondi
Medusa sei intera sei tra le mie braccia
nessuno verrà a strapparti la faccia
a farne un amuleto contro nemici priapeschi
Medusa tocco le spire dei tuoi capelli freschi
e non lascerò che non me li mostri
certe volte bisogna lasciarsi amare a tutti i costi.
Lotta chiuse con un tocco di polpastrello quella dichiarazione di amore, scritta quasi senza respirare. Nello stesso momento, Davide toccava la superficie umida per marcare il puntino sull’ultima i. Ce l’avevano fatta. Sentirono vibrare il pavimento, da cui emerse uno specchio perfettamente circolare. Non c’era fiato per congratularsi di aver indovinato l’ultima forma. Il cerchio rifletteva una luce abbacinante, che diresse sul controspecchio come se fosse attratto da una forza magnetica. Non appena i due si incontrarono, le parole per Medusa e la nebbiolina opaca tutt’intorno si impressero su Pharmakon, schermando la luce che emanava. In un lampo, non ci fu più niente. Nero più di una notte senza luna. Rimanevano Lotta e Davide, ancora a tenersi per mano, che sciocchi, due bambini con la paura del buio.
Ma durò solo un attimo, poi si squarciò qualcosa sopra di loro e videro i tre specchi luccicanti che ballavano una strana danza. Si libravano leggeri, sovrapponendosi, incastrandosi, trasformandosi l’uno nell’altro.
«Ua ma è bellissimo, è come nella storia di papà!»
«Cossa ditto? C’è troppo silenzio, non sento nulla»
«Hai ragione, godiamocelo in silenzio. A finale, è un bellissimo inizio.»
Davide si voltò a guardare Lotta, sul suo viso scorrevano le forme in movimento, oscurando quegli occhi così felini, ora felici.
–