PEZZI di DADAS
“SABBA”
Tia Venturi – Dadas#1
“SONNENTANZ”
Sonia Maria Lisco – Dadas#0
A casa Bersaglio
che quella sera
dischiuse il migliore dei mondi possibili
I preludi a questo momento erano tanti, spesso indicibili nella loro abbondanza. Ma, arrivate a questo punto, è difficile definire i contorni di ciò che era prima, perché sono tante le vite che hanno preceduto il momento in cui, dallo strato più nascosto della nostra pelle, abbiamo aperto finalmente lo sguardo verso l’autentica e obliqua natura delle nostre esistenze. Giunti fino a qui, i nostri corpi non torneranno indietro: seguiranno, sommessi, unicamente il richiamo del desiderio.
*
Anita si sveglia sempre un po’ prima di me. Le piace bere il caffè al tramonto, accovacciata sulla sedia in terrazza, dice che le ricorda gli aperitivi con gli amici dopo l’università, e subito gli occhi le si velano di una dolcissima nostalgia. In quei momenti vorrei baciarglieli, quegli occhi, e dirle che tutto finirà, ma sarebbe disonesto. Allora provo a dirle che adesso le birrette se le beve all’alba, che è bellissima e i colori sono pressoché gli stessi, ma lei rimbecca prontamente che non è vero: l’alba è viola, il tramonto è aranciato e anche il profumo è diverso, è tutto diverso, ma poi che ne sai tu che ormai non vedi più né uno né l’altra. Ha ragione: quando mi sveglio io c’è ancora un po’ di luce, davvero poca in realtà. Preparo la colazione per entrambe e la raggiungo in terrazza, mentre il cielo diventa indaco e i contorni della luna si fanno sempre più nitidi.
Hai preso le pillole? Non ancora. Devi prenderle. Stanno finendo. Arriverà il pacco nuovo. E infatti il pacco arriva. Vitamina D, A, complesso di Vitamina B, Ferro, Calcio, Zinco, Echinacea, una specie di concentrato miracoloso che dobbiamo ingurgitare ogni giorno – c’è scritto proprio “una volta al dì”, che ironia – per sopperire alla mancanza di luce. È lo Stato in persona a mandarci le scorte a domicilio, così come è lo Stato in persona ad assicurarsi che nessuno di noi si butti dal balcone o si tagli le vene. Per Anita, che ci aveva quasi provato (e per quelli come lei) il protocollo prevede anche iperico in dosi controllate, per regolare l’umore, oppure benzodiazepine: a quanto pare lei soffre più del previsto. Supporto per i soggetti fragili.
«Io non ce la faccio a svegliarmi che fuori è buio, Matilde, mi sento morire.»
«E allora svegliati prima.»
Ecco spiegato il lungo caffè al tramonto sulla terrazza.
Mentre si prepara per andare al lavoro non parla quasi mai, esegue diligentemente il necessario per rendersi presentabile ed esce velocissima, quasi a voler minimizzare il tragitto, per rifugiarsi al sicuro all’interno del suo ufficio. Io, che lavoro da casa, la osservo togliersi il pigiama, spogliarsi, con le sue mani perlacee e le curve dolci come la luna. Ogni tanto mi avvicino per darle un bacio sul collo, ma lei spesso si divincola infastidita.
«E dai Matì, farò tardi al lavoro.»
«Guarda che gli occhiali da sole non ti servono, scema.»
«È l’abitudine.»
Comincio a lavorare quando fuori è buio e la città si anima: la mia scrittura si alimenta del traffico in sottofondo, delle voci dei bambini che vanno a scuola, dei clacson e dei versi scomposti dei cani. Accendo solo la lampada sulla scrivania e quasi mi dimentico che fuori è notte, perché la mia dimensione è piatta e bianca come lo schermo, come bianche sono le nostre pelli protette dal sole e bianca è la luna. Tonda, tondissima anche quando è solo uno spicchio appena accennato: conto l’incedere dei giorni guardandola mutare, nella sua forma avvolgente, che mi ricorda i seni di Anita e i suoi occhi perfetti. Penso che in fondo non sia così male vivere di notte, perché posso fissare la luna che cambia, faccia a faccia, possiamo unire le nostre curve bianche. Da donna a donna ci guardiamo negli occhi, senza paura di mostrarci nude, la mia pelle riflette la sua. Il sole gli occhi me li chiude, rovente e spietato, maschio da cui adesso dobbiamo rifugiarci per sopravvivere, rintanarci nel buio, tra le tiepide braccia della luna. Hanno vinto le streghe, stronzi. E vorrei che Anita lo capisse, che non avesse paura di guardare negli occhi la femmina che ora veglia sulle nostre vite. Che cosa temi, Anita? Perché non vuoi farti abbracciare da quella curva bianca e luminosa? Perché non riesci a lasciarti andare ai suoi mutamenti, ciclici e perfetti, come fa la marea? Per farla dormire, a volte, le accarezzo gli occhi chiusi. Sento la sua fronte distendersi sotto il tocco delle mani, il respiro farsi più lento e greve.
I primi giorni della nuova vita faticavamo tutti a dormire e i giornali dicevano che era normale, ci avevano avvertito. Invitiamo la popolazione a mantenere la calma e ad assecondare il cambiamento. Anita l’ha assecondato talmente bene che dopo dieci giorni ha inghiottito un’intera confezione di aspirina, e io l’ho fatta vomitare con due dita in gola. Come durante il nostro primo San Valentino insieme, trascorso nel baretto di Arturo, che continuava a offrirci gin tonic. La bevanda perfetta per fare l’amore, ci diceva, accarezzandosi la pancia e sorridendo con occhi liquidi. Anita rifiutava sempre, non amava gli eccessi, né perdere il controllo. Diceva che la faceva sentire nuda. Sta di fatto che, nonostante io avessi accettato tutte le offerte di Arturo e lei no, il nostro fantomatico amplesso si incarnò nelle mie dita che le inducevano il vomito. Voleva smaltire i pochi drink che il suo corpo esile aveva ingerito.
«Amore devi resistere, vedrai che ti abituerai.»
«Non ce la faccio, Matì, ho le vertigini.»
Non riusciva a dormire, non riusciva a mangiare, il ritmo circadiano completamente sfanculato. Era quasi l’alba quando decisi di portarla all’ospedale, per assicurarmi che fosse realmente fuori pericolo. Aveva scelto proprio un orario di merda per tentare il suicidio: molti tornavano a casa dopo il lavoro, il traffico mi sfiniva e mi sembrò di trascorrere in quell’auto un tempo indefinito. Anita piangeva in silenzio, tremando sul sedile del passeggero, mentre il ricordo di quella paura folle ronzava ancora impertinente nella mia testa.
Freddo, gelo. Le braccia sembrano immerse in una vasca di ghiaccio secco. È insopportabile e al tempo stesso irresistibile. Un bruciore subdolo che diventa, lentamente, formicolìo. Un timido polpastrello che accarezza i gomiti e la nuca, ad ogni tocco produce una scossa e lascia un’immaginaria scia umida. Secondo le istruzioni, questa fase dura in genere 64 secondi. Ma a me sembra di aver fatto ritorno al grembo materno, all’ovattato fluttuare della placenta.
«E lei è…?»
Un uomo di mezza età, con un paio di occhiali spessi e un camice bianco, mi parlava con espressione perplessa. La saliva gli si raggrumava agli angoli della bocca, che non potevo fare a meno di fissare.
«Matilde Gori, sono qui per Anita Crescenzi, è entrata poco fa per accertamenti. Codice giallo al pronto soccorso. Posso avere notizie?»
«Ma lei è…?»
(mi prendi per il culo?)
«Matilde Go…»
«No signorina, non ha capito. Intendo dire: lei è sorella, madre, parente di primo grado della ragazza?»
(sì però vedi di cambiare i toni perché non ho sette anni, imbecille)
«Sono la sua fidanzata.»
(lo sapeva, ma voleva sentirselo dire da me, il viscido)
«Mi dispiace, non posso darle nessuna informazione, dobbiamo ricoverare la signorina Crescenzi per qualche ora, lei vada pure a casa e mandi piuttosto un parente.»
«Ci sono solo io.»
«Rinnovo il dispiacere, ma se non siete sposate…»
Il dottor Stocazzo, nel fondo delle mie orecchie pulsanti, assunse le sembianze di tutte le mie più profonde rimozioni. Con la tua carnagione così chiara risaltano tutti i difetti. Se bevi non puoi mangiare, poi diventi una vacca. Io, vetrina mobile dei miei errori, essere imperfetto e trasparente. Devi smetterla, tu e la tua insostenibile sensibilità del cazzo, mi diceva, mentre dimenticava di guardarmi negli occhi. Cos’è sta novità che sei lesbica adesso? Un altro modo per attirare l’attenzione? Se ti incontrassi ora non ti rivolgerei la parola. Solo tu mi puoi salvare.
«Per favore dottore.»
(arrivai ad implorarlo, quel coglione)
«Il protocollo…»
«Ah, vaffanculo coglione!»
(e sì poi gliel’ho dovuto dire)
Grazie alle mie dita, Anita aveva vomitato tutto e stava bene. Dopo l’incidente non la persi di vista per altri dieci giorni, fino a che non sembrò tranquillizzarsi.
«Quindi è di notte che vivremo, d’ora in poi.»
Aveva la voce ridotta ad un sussurro rassegnato.
«Pare proprio di sì.»
Non volevamo credere alle prime fughe di notizie. Temperature da record: dopo l’ultima ondata di decessi, la Commissione Europea valuta la proposta avanzata dall’università di Cambridge. Bella proposta: vivere di notte e dormire di giorno, in appartamenti coibentati con materiali di ultima generazione, per poter riposare al fresco senza dover utilizzare i climatizzatori. Il tutto è avvenuto abbastanza rapidamente. Nel giro di poche settimane, le città si sono trasformate in enormi cantieri e dopo poco più di un anno eccoci qua: sveglia alle 20, lavoro dalle 21 alle 5, aperitivo all’alba, cena alle 8. Cinema dalle 9 alle 11, a mezzogiorno a letto, nelle nostre abitazioni perfettamente isolate, prima che il caldo cuocia le cortecce cerebrali. Esperimento pilota in cinque stati europei, tra cui noi, che in quanto a pilotare dirigibili destinati allo schianto siamo sempre stati in prima linea. D’estate riusciamo a svegliarci con ancora un po’ di luce, che ha il sapore di una carezza dal passato. Del passato non ricordo molto, intendiamoci, mi sembra di vivere così da sempre. Ricordo le cronache tra amici sui reciproci malesseri, il ciclo mestruale irregolare, gli umori a terra, il boom degli integratori e degli antidepressivi, i nostri corpi che mutavano come mutano i serpenti. I miei capelli, col passare del tempo, sono diventati tutti bianchi. Anita ha perso quasi tutte le efelidi e la nostra pelle, geneticamente già perlacea, sembra ora imbevuta di uno scintillìo etereo: la Luna alleva il suo esercito di vampiri.
*
Ore 20.15, suona la seconda sveglia. Anita è già sulla terrazza che guarda il sole tramontare. Respira l’aria umida delle sere d’estate che, nella vita di prima, ci accompagnava verso i concerti nei parchi. Piccole api ubriache. Mi guarda con gli occhi stanchi, ma imbevuti di un brivido inedito. Prende il cellulare e sorride, il volto piccolo illuminato dalla luce fredda. Poi rivolge lo schermo verso di me.
«Dobbiamo andare a Berlino.»
«Eh?»
Io posso lavorare ovunque, ma lei no. Per ottenere una settimana libera ha dovuto sfoderare astuzia e progettare incastri per celarsi all’algoritmo.
«Questo mese il punteggio è buono, ho 8.9.»
«Ancora con sta cazzata dell’algoritmo. Sono degli sciacalli e voi tutti lì a guardare.»
«Sai sempre tutto tu, Matì.»
In questo periodo non faccio che ferirla, di proposito. Voglio rompere quelle corde a cui si aggrappa affannosamente per non cedere, si aggrappa a qualsiasi cosa, ma non a me. Lavora per un colosso della consulenza finanziaria, uno di quelli che schiavizza i dipendenti, costringendoli al regime di partita IVA, e che assegna mensilmente un punteggio in base al raggiungimento degli obiettivi. Anzi, ad assegnarlo è un algoritmo di ottimizzazione della produzione, finanziato direttamente dal Ministero del Lavoro, che in base al rating determina la concessione di ferie, malattia, permessi per visite mediche ed eventuali scatti stipendiali. O i licenziamenti, comunicati tramite app, col pacco dei tuoi effetti personali recapitati direttamente a casa dai robottini corriere, così non devi neanche preoccuparti di svuotare l’ufficio. Le loro feste di Natale sono famose in tutta la Pianura Padana: chef stellati, dj internazionali, cocaina nei bagni delle donne. In uno di quelli, in fondo al corridoio a destra, indossava un tubino nero e delle scarpe color senape. Ritoccava il mascara, riflettendo sul grande specchio del bagno l’espressione concentrata con la bocca semiaperta. Poi uno starnuto, l’urto cristallino del tubetto di plastica contro il lavandino.
«‘Fanculo…»
«Tutto ok?»
Un maldestro baffo nero segnava la curva del suo occhio lucido.
«Eh, insomma…guarda qua che disastro.»
Sorrideva imbarazzata.
«Aspetta, ho un fazzoletto se vuoi, provo a toglierlo.»
Estrassi dalla borsetta un fazzoletto di carta, lo inumidii con la mia saliva e le presi il mento tra le mani. Delicatamente, la pulii dal mascara, sussurrando appena. ‘Spetta…ok dai, ‘spetta…ok. Sentivo il suo respiro di alcol misto al profumo di mughetto. Ero andata a quella festa per accompagnare il mio fidanzato, anche se non conoscevo nessuno.
«Grande, grazie mille, se no sai che figura. Anita, piacere.»
«Matilde.»
*
Il viaggio verso Berlino è stato tranquillo, non abbiamo avuto problemi ai confini. La Germania è uno dei cinque stati pilota e, a differenza delle altre nazioni, non richiede documenti supplementari per l’ingresso nel paese. Anita aveva preso appuntamento con una certa Lea alla stazione centrale.
«Ma te sei scema, ma chi la conosce questa, e se poi è tutta una cazzata?»
«Io devo farla questa cosa, Matì, altrimenti provo ad ammazzarmi di nuovo.»
Appena fuori dal treno l’aria è fresca, le scaglie delle luci riflesse sui vetri accecano un po’ gli occhi. Arriviamo a Berlino che è quasi l’alba. Restiamo immobili alla ricerca del nostro gancio, della persona che potrebbe salvarci, una sconosciuta a cui stiamo affidando le nostre vite. I passanti, stremati dalla giornata di lavoro, si affrettano davanti ai nostri occhi e quasi ci trapassano, spaesate e ferme. Invisibili nella nostra immobilità, in tutto quel correre. Ad un tratto la vedo, bassa e con gli occhiali scuri, un paio di leggins color melanzana, delle sneakers verde fluo e un gilet lungo fino al ginocchio. Ha intercettato il mio sguardo e ora sventola un pezzo di cartone con scritto “Anita & Matilde”, con la “e” commerciale. Sembra il nome di una marca di assorbenti. Faccio cenno ad Anita di seguirmi, Lea inizia a venirci incontro con passo svelto.
«Hiii welcome! I’m Lea, welcome to Berlin!»
Metropolitana, un autobus e una macchina guidata da un ragazzo giapponese con un berretto di cotone arcobaleno. Ci dice che da fuori potrebbe non sembrare granché, ma il Kubik è un posto bellissimo, ci piacerà. Dal finestrino dell’auto osservo la città che si tinge di luce tiepida e compie il rituale che precede il sonno, nell’indeterminatezza del non ancora. La gente seduta fuori ai tavolini dei bar, alcuni si affrettano a tornare a casa, la torre della televisione svetta luminosa.
Il Kubik è un bunker della Seconda guerra mondiale in disuso, che da fuori sembra una scatola di latta per i biscotti. Tutt’intorno c’è un parcheggio immenso e poi una strada a scorrimento veloce, che segna campi incolti a perdita d’occhio, rassegnati all’arsura, secchi e ruvidi. Come accade sempre, il giorno comincia improvvisamente a picchiare con violenza. Prima di uscire dall’auto, Lea ci porge i cappelli protettivi, che in Germania sono color ruggine, mentre in Italia sono verde menta.
Ci consiglia anche di indossare dei copri scarpe: quell’edificio è abbandonato da tempo e anche l’asfalto tutt’intorno non è ancora stato trattato per resistere al calore. Eseguiamo le indicazioni, frastornate ma diligenti. Corriamo dentro l’edificio immergendoci nel muro bollente dell’aria immobile, abbandonata anche dal più timido alito di vento. Varcata la soglia del cubo di pietra grigia, il buio totale. Sentiamo voci, passi, corpi che sgusciano tra le pareti, odore di cipolla arrosto e musica, qualcuno suona una kalimba.
Al secondo 65 cominci a sentire le punte degli arti arrotondarsi: smussi gli angoli e ti trasformi in zucchero filato, appiccicoso e leggero. I confini del tuo corpo e quello dell’aria greve si fondono in un unico sbuffo dolciastro, che si insinua nella bocca: sapore di pesca e maracuja. Esci dall’immobilismo per iniziare a muoverti, lento e docile. Neonato sudato, ti arrischi a scoprire il mondo, rinato in forma di nube sottile.
Lo sguardo si abitua e comincio a distinguere i contorni. Anita mi prende la mano. Davanti a noi tre piani a vista e scale senza corrimani. Esseri umani multicolore sciamano a ritmo cadenzato. Vivono tutti lì: cucinano, dormono su materassi allineati, suonano, fanno l’amore, mischiano i loro accenti e le provenienze. Le pareti spesse sono ricoperte da un sottile strato di carta lucida e i vetri sono lievemente oscurati. Lampade a led di tutti i colori ricamano l’ambiente come bottoni. Lea ci fa segno di seguirla e ci conduce in un angolo dello stanzone al piano terra, dove troviamo due materassi e due borsoni gialli. Ci saluta con un sorriso largo e lo sguardo perso.
«Here you are girls…you’ll find everything you need in the bags. See you in a while!»
Ci sediamo sui materassi con i borsoni sulle ginocchia. Qualcuno si avvicina a salutarci, altri si limitano a sorridere. Anita ha la bocca impastata e il cuore ristretto. Lo so, la sento. Me ne accorgo da come si rannicchia sperando di evaporare.
«Ma secondo te vanno a dormire? Sono le 11…mi sembrano tutti attivi ancora.»
«Io credo proprio di no.»
Siamo molto stanche, ma la gran quantità di gente intorno a noi, la kalimba, le voci, gli odori, ci impediscono anche solo di chiudere gli occhi. Decidiamo di risvegliarci dallo stato catatonico in cui siamo precipitate per disfare i borsoni – io fissavo incredula una ragazza mora e minuta che faceva un pompino al suo vicino di letto, mentre lui mescolava la minestra su un fornelletto da campeggio. Ogni tanto contraeva il volto in piccole smorfie indecifrabili. Lo zaino contiene degli slip neri, un paio di sandali infradito con la suola isolante, un tubetto di crema solare, un opuscolo informativo, una barretta proteica e una borraccia con un litro e mezzo d’acqua.
«Sono tosti qui eh? Daniele, ber arrivate.»
Un ragazzo dagli occhi gentili e i capelli raccolti in grossi rasta si avvicina a noi. È italiano, accento fiorentino, deve aver sentito i nostri commenti appena arrivate.
«Sì…pazzesco, non mi aspettavo niente del genere.»
Anita era sinceramente commossa.
«È la prima volta?»
«Sì. Per te?»
«La seconda. Sono arrivato qui il mese scorso e non me ne sono andato più. Volevo riprovare, ma bisogna aspettare 28 giorni tra un’esperienza e l’altra.»
«Come le mestruazioni.»
Sorride coprendosi gli occhi con le mani.
«Ricordatevi di bere tutta l’acqua, prima, se no vi risvegliate tra tre giorni.»
Un leggero brivido percorre il basso ventre.
«Ma per dormire come si fa?»
«Ah, qua ognuno fa come cazzo gli pare, basta arrivare in forma alle 15.»
Impari il tuo nome, il tuo nome nuovo. Nomini le cose per la prima volta, ne inventi di altre, dio creatore di mondi, di vite e di morti. Provi ad articolare una parola, ma invano, la lingua si scioglie e si incolla alle labbra. Riesci solo a regolare il battito del cuore con il drop delle casse.
E così facciamo: decidiamo di mangiare la barretta e bere un po’. Ci addormentiamo abbracciate su uno dei due materassi, stordite dal viaggio, dal caldo – il bunker non è isolato come casa nostra – dalle informazioni, da quello che sta per arrivare ma che vogliamo lasciare lì, in un angolo remoto delle nostre aspettative, come con i sogni proibiti. Anticipiamo già la sua mancanza. Ci sveglia un messaggio in filodiffusione, una voce maschile e melliflua accarezza le orecchie:
“Hello, sons and daughters. The sun is ready to embrace you in her peaceful arms. Drink your water and come outside. Leave your fears and doubts with your clothes. Free you inner jungle!”
Free your inner jungle!
Rispondono in coro le Sonnentöchter, membri di un’organizzazione internazionale che organizza clandestinamente rave party alle tre del pomeriggio, sotto il sole cocente, violando tutte le linee guida del progetto pilota. I fondatori, Klaus Stock e Lisa Brunner, svettano sulla scala più alta del Kubik e incitano i presenti ad urlare con loro, i volti scavati e i sorrisi smaglianti:
Free your inner jungle!
Daniele, il ragazzo italiano che poco prima ci aveva accolte, urla sollevando i pugni con sguardo infuocato. Tutte le occupazioni si interrompono e gli abitanti del Kubik, come formiche, cominciano a spogliarsi, ad aprire le borse gialle, eseguono i movimenti con precisione e frenesia. Dall’esterno, la voce del basso, che scuote l’asfalto bollente. Restiamo in silenzio, senza fiato: poi Anita mi sorride. Mi guarda, sorride, le lacrimano gli occhi, sfonda le barriere. Si spoglia, indossa gli slip neri e i sandali e io la imito, imito tutte le formichine intente a prepararsi al rituale. A morire e a rinascere.
«Adesso arriva la parte migliore. Usatela tutta, poi correte fuori!»
Daniele si è avvicinato a noi e stringe il tubetto di crema solare col il tappo a forma di sole. Lo solleva come un trofeo, lo brama pregustando il godimento che ne seguirà.
Diventi cerchio, contieni le moltitudini. Luna e sole, donna completa, donna e uomo in un corpo che non ricorda più il suo odore. Contieni le maree. Sfiori mani e braccia straniere, ti lasci toccare, gli occhi chiusi e le palpebre bollenti. La musica muove, stimola i nervi, corrode la pancia vuota. Il sudore lava e battezza. Madre Sole, Madre Luna, la tua bocca pronuncia sillabe sconnesse. Lallazione latente.
*
«Dobbiamo andare a Berlino.»
Mi avevi detto, Anita. E io non capivo. Non lo faccio quasi mai. Mi hai mostrato lo schermo del telefono con aria trionfante, avevi vinto la battaglia contro i demoni.
«Li ho trovati, sono riuscita a mettermi in contatto con loro.»
«Esistono davvero?»
«Sì, hanno un gruppo Telegram criptato, la chat è attiva solo per qualche minuto.»
«In che senso qualche minuto?»
«Allora, andiamo? Sì o no, Matì?»
Sì o no. Tutto organizzato nei minimi dettagli: il bunker isolato, i messaggi criptati, la sostanza che promette di farti dimenticare questa merda e rinascere a vita nuova. Dato che i controlli sugli stupefacenti sono diventati serratissimi, l’unico modo per eluderli è nasconderli nell’oggetto di cui non possiamo fare a meno e che nessuno si sognerebbe mai di sequestrare. L’oggetto da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza: la crema solare. Lacream è contenuta in un tubetto di plastica gialla con il tappo a forma di sole. Una sfera perfetta e luminosa, che riflette la luce. Profuma di mentolo e melone e reagisce con il calore della pelle e del sole: più fa caldo, più il suo effetto si amplifica.
«Io non so se sia una buona idea, Ani. Chi sono questi? Ma poi perché ci tieni tanto a ballare sotto il sole a sessanta gradi, la mia vita è migliorata da quando non c’è più.»
«Ancora con ‘sta storia.»
«Quale storia?»
«La tua storia. Sempre tu, solo tu e le tue parole. Lo sai che in tedesco “sole” è femminile e “luna” è maschile? Vivere di notte non è meglio, siamo rinchiusi al buio come topi, viviamo nelle fogne. Prima o poi dovrai risolvere i tuoi problemi con i maschi, non sono tutti figli di puttana come il tuo ex. Ti stai solo nascondendo perché hai paura.»
«E di cosa?»
«Lo sai.»
«Ah, adesso sono io quella che ha paura?»
«Allora…Sì o no, Matì?»
*
Spalmiamo Lacream sui nostri corpi nudi e bianchi. Anita risplende come una creatura dei boschi. Questa volta sono io a non riuscire a muovermi. Anita mi prende la mano e mi bacia.
«Dai, usciamo!»
E corre via, trascinandomi con sé. Entriamo nello sciame di persone che lascia l’edificio e si arrende alla luce del sole. Siamo fuori, l’aria brucia, non respiriamo. Anita ride sguaiatamente, mi lascia la mano e inizia a ballare, corre, salta. Io la fisso con occhi estranei, immobile. Una parte di lei, quella che si rannicchiava nell’incavo del mio collo, si è già sciolta sotto lo strato di crema. Fisso tutti. Nudi, euforici, si aggrappano al loro bisogno di sopravvivenza.
Lasciatemi stare, lasciatemi andare, io non lo voglio questo mostro bollente con il cazzo duro e i muscoli,
io non respiro,
io non vivo.
Forse muoio.
Solo tu mi puoi salvare.
Si sente solo la musica: martellante, liberatoria, ipnotica, lentamente si coordina con il respiro, che si abitua a fatica all’aria solida che lo circonda. Odore di mentolo e sudore, aliti di sigarette che solleticano le narici. Tutt’insieme, con un colpo secco, ecco che arriva il salto che raggela il sangue, il freddo e la paura che il cuore si fermi. Anita è già oltre, è già andata, i suoi occhi vuoti sfrecciano da un punto all’altro della folla che ci circonda. Non mi guarda, o forse sì. Mi vede, anzi, mi attraversa. Sono aperta a metà, sezionata da cima a fondo: sono un cervello, un cuore, polmoni, stomaco e intestino, ovaie, vescica spugnosa. Lei mi attraversa e conta le fibre dei miei muscoli intorpiditi. All’improvviso tutti fissano i miei organi: sono lì alla mercé di bocche fameliche, pronta a vedere il mio cuore strappato dal petto. Mangiatemi, forza, prendetemi. Io mi arrendo a questo caldo torrido, non posso farcela. Sbatto le palpebre, non vedo più i volti. Intorno a me solo corpi aperti. Vedo i cuori battere insieme, gli stomaci contrarsi a ritmo, i polmoni dispiegarsi e poi richiudersi in unico, universale afflato. Du Dum.
Spariscono gli accenti e le articolazioni dei pensieri: siamo cellule fluttuanti. La musica diventa il nostro stesso respiro, le forme dei nostri corpi si confondono. Succhio affamata il nutrimento dalla Madre Sole, ricordo nostalgica la luce tiepida della Luna. Madre e padre insieme: la sintesi si espande nelle mie viscere finalmente libere e mi completa. Ricerco la forma tondeggiante dello spicchio luminoso nel cielo, lo rivedo nel calore che pervade le mie ossa, non più fragili. Mi lascio penetrare, riempire di tepore, mi trasformo in fotone. Madre e Padre, Donna e Uomo, abbraccio con mani incerte la mia essenza trasversale.
Poi torni a sentire le voci, quando la luce del tramonto inizia a scurire il colore della pelle. Il corpo disidratato si accascia al suolo, non più bollente, non più ruvido: avvolgente gomma piuma. La musica si fa meno aggressiva, le casse diffondono musica dance anni 80. Alcuni ballano ancora, altri, stremati, riescono solo a respirare affannosamente in posizione supina. I muscoli del volto si distendono in un sorriso languido, chiudo gli occhi mentre sento la sera umida avanzare.
Sono salva.
Li riapro dopo poco: le braccia riportano alcuni graffi. Sento il corpo vuoto, respiro a fondo. Ora ti giri su un fianco e ti alzi, ordino al mio complesso organico. Ma resto lì, in attesa, come se mi fosse stata fatta una promessa. Ancora distesa, giro la testa.
Cerco con lo sguardo Anita, non la vedo. Non la rivedrò mai più.