PEZZI di DADAS VI

di Maria Sole Cusumano - News Editoria Visual

“TARANTA”

Porno Botanica AKA Susan Quartesan – Dadas#1
Taranta
Taranta

“DI SANGUE E LUNA”

  Maria Sole Cusumano – Dadas#1

Non capivo perché mia madre, ch’era sola da tutta la vita, di mestiere facesse maritare le altre donne.
Venivano a bussare nelle notti di luna piena, quando la stradicciola che portava a casa nostra era illuminata a giorno e non si rischiava di finire giù dalla scogliera. Me le ricordo tutte quelle disgraziate con il capo coperto da un fazzoletto e uno spillone d’argento nei capelli, perché ero io ad aprire loro la porta mentre mia zia, la Zitella, le purificava, ungendo mani e fronte con una sostanza oleosa che sapeva di marcio. Poteva farlo solo lei che non aveva mai avuto un uomo.
Tutto accadeva in silenzio, con la sola compagnia del mare che tuonava alle nostre spalle. Se non c’era vento, se non si annunciava la bufera, mia madre si serrava dentro e cacciava via le clienti.
Ma se erano fortunate, queste donne, e c’era la luna bella tonda su nel cielo e il mare si buttava sugli scogli e loro avevano il marchese, era perfetto. Mia madre le accoglieva seria come voleva la sua professione ma si vedeva che gli occhi le luccicavano.
Casa nostra era casa di gente povera, con una stanza sola in cui si mangiava, si dormiva e ci si lavava. C’era la tinozza in un angolo, quello lontano dall’ingresso per scansare le correnti d’aria e il braciere accanto al letto, un vecchio letto cigolante su cui stavamo tutte e tre: io, la mamma e la Zitella. Non c’erano specchi perché attiravano gli spiriti.
Mio padre, quando era vivo, dormiva di sopra e di sopra era morto dopo che gli avevano sparato alla schiena. Da allora, siccome aveva insozzato di sangue quel posto, mamma non ci andava più ed era come se non ci fosse mai stato; la scala di ferro anche era stata distrutta, gettata in mare.
Ma quando arrivavano le donne, la casa mutava.
La Zitella levava la tinozza e metteva contro il muro il materasso, le conserve di cibo le stipava in un vecchio cassone che spingeva verso il lato sud della stanza, sotto una finestrella con le tende sempre tirate. Poi prendeva i fiori, che tenevamo per fare il profumo, strappava i petali e li sparpagliava sul pavimento. Al centro, come l’altare nella basilica, ci piazzava una sedia con un lenzuolo bianco sciacquato con l’acqua di mare.
I punti di riferimento sparivano mentre la veste scura di mia zia disegnava cerchi intorno la stanza e quel che toccava perdeva la sua collocazione originaria: la Bibbia per terra, il comodino girato dall’altra parte, le trecce d’aglio lasciate fuori, i quadretti della Madonna coperti da fazzoletti ricamati, e i gioielli, i pochi che avevamo, quelli del matrimonio, sepolti sotto l’albero di noce.
Così le estranee che venivano da fuori non avrebbero saputo dire se quello fosse il santuario di mia madre o la nostra casa, dove il resto del tempo vivevamo nella più profonda riservatezza, consegnando alle pareti mangiate dall’umidità il nostro buon umore ma anche i nostri dispiaceri e dolori.
In una sola notte accoglievamo una decina di donne. Giovani e giovanissime, a volte anche un po’ attempate, come la zia, che bruciavano dalla voglia di sapere com’era avere un uomo che ti stringe nel letto la notte.
Mia madre, che lo sapeva, diceva che non era niente di che. Si sente meno freddo d’inverno, rideva, e poi dava un pizzicotto a sua sorella aggiungendo: Ma con te si sta ancora meglio, perché hai il seno e i fianchi sodi che scaldano. E ridevamo tutte.
Di solito al rito non potevo assistere, dovevo restare fuori con la schiena contro la porta a prendermi il vento e la sabbia, intimando alle altre signore e signorine di pazientare, ch’era questione di minuti e sarebbe toccato a loro. Ma quando anch’io buttai il sangue mia madre cambiò faccia e decise che bisognava che imparassi il mestiere.
La zia, allora, fu spedita fuori, ad accogliere le donne e a calmarle quando in certe notti d’inverno l’unica cosa che scaldava era veramente la luce della luna. E fu una di queste notti che vidi che magarìe faceva mia madre.
Avevo mani e piedi gelati, perché avevamo spento il braciere già al tramonto per smontare la casa e prepararla, e per questo mi muovevo in continuazione, facendo cose di cui non c’era davvero bisogno. La mamma s’indispose per quell’inutile affaccendarsi e, verso le nove, quando intravide dalla finestra la processione di innamorate, mi ordinò di star buona e zitta altrimenti mi avrebbe buttata in mezzo ai pesci.
Poi venne la prima donna. Era bella, la più bella, credo, e teneva fra le dita un rosario. C’era qualcun altro con lei, una signora anziana che poteva essere la madre o la nonna ma poi si presentò come la cugina. Disse che Lia – così si chiamava la donna – s’era invaghita di un soldato piemontese e anche lui pareva averla sempre in mente ma loro volevano essere sicure che, nel caso, l’avrebbe sposata.
Mia madre aveva ascoltato tutto il tempo con la mano sulla bocca, annuendo di tanto in tanto.
Siedi, disse facendosi di lato, e tirò giù il lenzuolo dalla sedia. Tienilo aperto, mi ordinò, bello largo.
La ragazza sapeva cosa fare e io non sbirciai. Vidi solo con la coda dell’occhio che si passava un fazzoletto in mezzo alle cosce e subito lo dava alla mamma insieme a un’altra cosa, una scatolina di metallo che tintinnò sbattendo contro il rosario che mia madre aveva sempre al polso.
Osservavo il rito con un fondo di paura in bocca: il sangue mescolato con un ciuffo di peli nerissimi, strappati da quella parte che gli uomini desideravano e non potevano vedere. Era lei, mia madre, la maga, a metterli insieme e, se il Signore aveva piacere, anche la ragazza e il soldato si sarebbero uniti.
Ma per stare sicuri, lo sapete, fareste meglio ad andare in chiesa questa domenica, precisò mia madre.
Le due fecero segno di sì e strinsero insieme il fazzoletto in cui mia madre aveva avvolto la scatolina.
E tu, disse di nuovo mia madre rivolta all’innamorata, metti tutto nel fondo di un bicchiere di vino rosso, guarda che sia denso, e assicurati che lo beva fino all’ultima goccia.
Le donne ci ringraziarono, lasciarono nella mano di mia madre un sacchetto che, dal rumore e dalla consistenza, mi parve contenere diverse monete, e uscirono da dov’erano entrate.
Andò così fino alle prime luci del giorno.
A quel punto io crollavo dal sonno e, prima d’essere l’aiutante di mia madre, mi tiravo sulla testa una coperta e dormivo nella paglia in mezzo alle nostre galline, perché la casa andava purificata dopo tutto quell’entrare e uscire di innamorate. Bisognava togliere i pruriti del desiderio, le tracce dell’amore, altrimenti ci avrebbero intossicate.
Mamma allora fece un’ultima magia: andò verso il nostro armadio, un pezzo di legno inutile che il sale e l’aria marina avevano guastato, perciò non ci tenevamo quasi niente per paura che si rovinasse.
Aiutami. Che fai lì?
E io, ricacciando indietro uno sbadiglio, pigiai tutta la mia schiena da bambina contro il lato dell’armadio.
Spingi. Al tre. Uno, due, tre.
Muovendosi fece tremare tutta la casa e rivelò una porta simile a quella d’ingresso; mia mamma l’aprì e ci inondò un puzzo di alghe e di fondale. D’istinto mi coprii il naso mentre una sensazione di ghiaccio mi afferrava le caviglie. Dalla porta entrava il mare a secchiate e bagnava tutto: i nostri piedi e quelli del braciere, la tinozza e il cassone, le pagine della Bibbia e anche i bordi del lenzuolo che penzolavano dalla sedia.
Stenditi, disse la mamma. Adesso il mare ti pulisce.
Io, anche se tremavo dal freddo, lo feci, lasciai che quelle onde un po’ pigre, ingrossate dalla marea e quindi dalla luna, mi accarezzassero i capelli, le spalle, le gambe. Vennero in mezzo a noi i pesci della costa a solleticarci i piedi e baciarci le guance, e l’acqua era nera e così tanta che per un momento ebbi la sensazione che il pavimento si fosse inclinato sotto il suo peso. La casa, già mutata in santuario, pareva inabissarsi e noi con lei, come in un sogno.
Un gioco di correnti gonfiava i nostri vestiti come vele, e il sole, che già doveva aver baciato la spiaggia, non riusciva a oltrepassare gli scogli e venire anche da noi.
Lo farai anche a me l’incantesimo?
Mia madre aveva gli occhi chiusi e una maschera d’acqua sul viso, solo le sue narici, aperte, larghe, mi davano la conferma che fosse vigile.
Tu non ne avrai bisogno. Semmai saranno gli uomini a chiedere per il tuo amore.
Sorrisi, in fondo speravo di muovere il desiderio di qualcuno, essere come la luna per il mare.

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