ll giorno dopo sentivo ancora le linee che le dita della sua mano aveva lasciato sulla metà sinistra del mio viso, dall’angolo della mandibola e su fino alla tempia, e dallo zigomo all’orecchio.
Per quanto le cercassi, nello specchio non vedevo più nulla. Eppure sentivo quelle linee con chiarezza perfetta, come nel minuto dopo aver ricevuto lo schiaffo.
Nella mia mente le linee erano lì, chiare e definite.
Dieci anni dopo, nelle mattine troppo lente o nei pomeriggi troppo lunghi, mi sorprendo a seguire con le mie dita le linee delle sue, sulla mia guancia. Se non fosse per le foto, il ricordo del viso di Carlo sarebbe sempre più vago. Anche del viso di Luca, in realtà, ricorderei poco. Lo schiaffo, quello che venne prima e quello che capii dopo: questo non lo dimentico.
Ho conosciuto Luca una settimana dopo aver capito che i miei genitori erano separati in casa.
Mi ero accorta da tempo che qualcosa era cambiato. Quando facevo domande, mi dicevano “è un periodo un po’ difficile, siamo tutti e due stanchi”.
Ripetevo la stessa cosa alle mie due sorelle. Io avevo ventitre anni, Sara ne aveva diciotto, Martina sedici. Quando non capivano cosa succedeva, chiedevano a me.
Mia madre era infermiera. Era appena tornata da sei mesi in Brasile e si stava preparando a ripartire per altri sei mesi. Mio padre era disarmato, incapace di reagire o di capire. Una sera ho messo insieme tutti pezzi.
Mi restava l’università, lo sport, le amicizie storiche. Una di queste mi ha presentato Luca.
Ho conosciuto Luca una settimana dopo aver capito che i miei genitori erano separati in casa. Per qualche tempo ho pensato che, se non fosse stato per la mia famiglia che si stava sfaldando, non mi sarei presa una cotta così stupida. La verità è che non sarebbe cambiato nulla. Ero una ragazza sveglia, capace e intelligente, ma non sotto l’aspetto emotivo. Ero la confidente di tutte le mie amiche, quella su cui si poteva sempre contare. Mi facevo carico di problemi che non erano miei, chiedevo scusa anche quando non era colpa mia. Nonostante tutto, mi sarei innamorata di Luca. Perché aveva un sorriso bellissimo e tanti problemi.
Luca era bello da stordire.
Ci conoscemmo durante un aperitivo in centro, al compleanno di un amico comune. Per tutta la sera non feci altro che guardarlo e fingere di guardare da un’altra parte. Aveva occhi e capelli castani e il sorriso facile. Mi piaceva quando parlava, perché avevo una scusa per guardargli le labbra. E parlava tanto.
Non era solo bello da guardare. Era divertente, sveglio e sapeva mostrare intelligenza senza essere saccente o spocchioso.
Luca era divertente, sveglio e sapeva mostrare intelligenza senza essere saccente o spocchioso. Ma se non fosse stato per il suo aspetto, non gli avrei riservato più attenzione che a chiunque altro dei presenti.
Quella prima sera ci scambiammo solo qualche parola. Scoprii che era un paio d’anni più vecchio di me, aveva lasciato l’università ma non lavorava. Giocava in una squadra di pallacanestro a livello agonistico e rimediava un po’ di soldi allenando le squadre giovanili.
Feci in modo di organizzare una seconda uscita con alcuni dei presenti, la settimana dopo. Con questa scusa, mi feci dare il suo numero di telefono.
Nei giorni seguenti feci in modo che alla seconda uscita non venissero troppe persone. Speravo che Luca mi scrivesse, ma non accadde. Gli scrissi io, con qualche scusa, ma la conversazione non andava mai oltre un paio di scambi.
Trascorse una settimana in cui la mia attenzione si spostò dai problemi che avevo a casa ai messaggi che ricevevo sul cellulare.
La sera dell’uscita al cinema eravamo solo in cinque. Dopo il film andammo in pizzeria ed ebbi modo di parlare con lui più a lungo. Anche se il giorno dopo dovevo svegliarmi presto, feci in modo di tirare la serata per le lunghe: proposi di spostarci in un locale, dove rimanemmo in tre, con un amico di Luca a cui non riuscii di far capire che la sua presenza non era più gradita. Quando finalmente se ne andò, mi offrii di riaccompagnare Luca a casa con la mia auto.
Passammo un’altra ora a parlare sotto casa sua. Era inverno, quindi restammo dentro l’auto.
Ci volle un’ora, e mancò poco che servisse una domanda in carta bollata, ma riuscii a farmi baciare.
A pensarci oggi, i segnali c’erano tutti. Ma io ero stordita.
La mia storia con Luca iniziò così.
In quelle prime settimane cominciammo a vederci e sentirci spesso, quasi tutti i giorni.
Gli dissi della situazione a casa mia, della paura che la mia famiglia si spezzasse. Poi mi sentii stupida e superficiale, quando lui mi raccontò che aveva perso il padre a diciassette anni.
C’erano argomenti di cui non si poteva parlare. Quando gli chiedevo perché avesse lasciato l’università a due esami dalla laurea si irrigidiva, mi diceva di farmi gli affari miei. Lo stesso quando qualcuno gli parlava di lavoro.
Ma parlavamo di sport, della sua pallacanestro e del mio pattinaggio. Di cinema e delle serie tv che amava, alle quali finii con l’appassionarmi. Ci piaceva cucinare insieme e organizzare gite brevi, di uno o due giorni.
La mia storia con Luca iniziò così. Lui però non parlava di “storia”. La chiamava “frequentazione”. Quando gli altri chiedevano, diceva che ci frequentavamo. Lo diceva ridendo, come se fosse uno scherzo ricorrente. Ma lo diceva anche a me, quando eravamo solo io e lui. Nelle prime settimane mi poteva andare bene. Anche i primi mesi. Poi la cosa cominciò a pesarmi. Non volevo essere la ragazza che frequentava, volevo essere la sua ragazza. A tutti gli effetti, lo ero: uscivamo insieme, ci sentivamo tutti i giorni, non vedevamo altre persone, organizzavamo la vita in funzione dell’altro. Essere definita una frequentazione era stupido e umiliante, ma se gli chiedevo perchè finivamo col litigare. Io ero quella che finiva col chiedere scusa: nella mia mente, il suo dolore e le sue insicurezze lo giustificavano.
Nel corso del primo anno della nostra storia, registrai il mio ultimo esame e cominciai a lavorare alla tesi di laurea. Cominciai anche a frequentare assiduamente la squadra di pallacanestro di Luca, con tutte le persone che vi giravano attorno. Era un bel gruppo e strinsi subito nuove amicizie.
Luca non era uno dei titolari della squadra, ma era molto presente, dentro e fuori dalla palestra. In generale era ben voluto, anche se avevo capito presto che c’erano alcune persone a cui non doveva stare troppo simpatico. E ovviamente alcune delle ragazze gli facevano gli occhi dolci.
Nel tempo misi insieme i vari pezzi. Le persone a cui non stava troppo simpatico erano compagni di squadra che lo avevano visto mandare a puttane delle partite che non stavano andando come lui sperava, o vecchi dirigenti che avevano provato a trovargli un lavoro e che lui non aveva più ricontattato. Erano persone che Luca aveva deluso: non gli volevano male, ma non intendevano essere delusi di nuovo.
Fu in quel periodo che conobbi Carlo.
Era uno dei migliori giocatori della squadra, quello a cui davano la palla se le cose si mettevano male. Avevo l’impressione che Luca avrebbe potuto tranquillamente stare al suo livello, se ne avesse avuto voglia.
Carlo e Luca si conoscevano dai tempi delle scuole medie, quando avevano cominciato a fare sport insieme. Fu uno dei primi, durante una serata post-partita, con cui mi sentii parte del gruppo, e non solo la ragazza di Luca.
Fu in quel periodo che conobbi Carlo. Mi fece sentire accolta e mi prese in simpatia più di quanto fecero altri della compagnia, tanto in fretta che pensai avesse una mezza cotta per me. Una sera ci ritrovammo in disparte, durante un periodo in cui tra me e Luca non andava troppo bene. Mi disse che se avevo bisogno di parlare con qualcuno potevo chiamarlo. Mi infastidì, perchè pensai volesse mettersi tra me e Luca. La realtà era che conosceva bene Luca e sapeva che non era facile stare con lui. Era affidabile ed emotivamente stabile. Era il tipo di persona di cui avrei avuto bisogno.
L’estate che seguì ci vedemmo spesso.
Carlo e qualche altro membro della squadra cominciò a frequentarci anche al di fuori della palestra. Passammo insieme la maggior parte dei weekend.
Stare in gruppo non mi dispiaceva, ma avrei voluto passare più tempo da sola con Luca. Lui, invece, sembrava cercare ogni scusa per fare il contrario.
L’estate che seguì ci vedemmo spesso. A Luca piaceva la compagnia, ma soprattutto non voleva stare da solo con me per troppo tempo. Quando succedeva, si comportava normalmente per le prime ventiquattr’ore, poi si faceva prendere da una sorta di paura del vuoto e si abbandonava a un flusso costante e ininterrotto di parole con cui riempiva il resto del tempo, parlando ore senza dire nulla. In tutto questo, ancora oggi mi chiedo perché volli insistere così tanto per quella vacanza in Grecia.
Decisi che volevo fare una settimana di vacanza da sola con lui. Una vacanza di coppia.
Accampò ogni possibile scusa, dalla mancanza di soldi al non volere stare troppo lontano da sua madre, ma continuai ad insistere fino a prenderlo per sfinimento.
Deve capire, pensavo, che sono qui per restare, che può rilassarsi e stare bene anche quando siamo da soli.
I primi due giorni andarono molto bene.
Il terzo fu tollerabile.
Il quarto giorno capii che era stata una pessima idea.
I primi due giorni furono davvero splendidi. Rideva, scherzava, lasciava che prendessi la sua mano mentre camminavamo, non si lamentava di nulla. Ce la stava davvero mettendo tutta. Il terzo giorno cominciò a stancarsi. Passò molto tempo a fissare il telefono e rispondeva per lo più a monosillabi. Il quarto giorno divenne spiacevole. Alternava apatia e ostilità, sempre a mio discapito. Il quinto giorno la cosa scivolò nel grottesco. Nel tardo pomeriggio, dopo aver passato la giornata a litigare, mi disse che lui in realtà non era mai stato attratto da me, non sentiva nessun trasporto. Addirittura a volte gli dava fastidio il contatto fisico. Aveva cercato in ogni modo di farmelo capire.
Tre giorni dopo il ritorno a casa mi telefonò per dirmi che non voleva continuare la frequentazione. Usò di nuovo quella parola, “frequentazione”.
Cercai di convincerlo a vederci di persona e parlarne, ma non ci fu modo.
Chiesi scusa, ovviamente. Gli dissi che era colpa mia, che ero stata stupida. Mi umiliai, e per niente. Mi rispose che non voleva incontrarmi, che gli avrebbe fatto troppo male, e mi chiese di accettare la sua decisione. Mi scusai ancora e per un po’ non ci vedemmo.
Cominciò un periodo nero. Mia madre era ripartita e non avevamo la certezza che sarebbe tornata. Mio padre non riusciva a tenere insieme tutti i pezzi e le mie sorelle avevano bisogno di qualcosa di solido a cui aggrapparsi.
Ma io, di solido, non avevo nulla. Non continuavo con la tesi, non cercavo un lavoro. Passavo le giornate in uno stato di apatia funzionale, sperando che Luca si facesse vivo o che non lo facesse mai più.
La maggior parte delle persone che orbitavano attorno alla squadra di pallacanestro sparirono dall’oggi al domani, alcuni scrissero per dirmi quanto erano dispiaciuti che le cose non avessero funzionato tra me e Luca. L’unico a chiamare fu Carlo.
Fu una telefonata breve, tesa e imbarazzata. Carlo non sapeva cosa dire, si bilanciava tra luoghi comuni e tentativi di non essere scontato. Ma in molti modi mi fece bene.
Nei giorni seguenti si fece sentire con regolarità e dopo un paio di settimane mi invitò a prendere un caffè insieme. Ci incontrammo e gli raccontai di nuovo quello che gli avevo già detto al telefono. L’incontro fu breve ma piacevole, più naturale rispetto alle telefonate.
Al momento di congedarci mi venne in mente di aggiungere che mi faceva davvero piacere vederlo, ma tra me e lui non ci poteva essere niente.
“Te lo dico perchè non voglio prenderti in giro, Carlo. In questo momento io proprio non…”
“Ferma, ferma. Non mi devi spiegare niente. Io e te siamo amici, e gli amici non si lasciano da soli. Per me è tutto qua.”
Quando disse così, mi sentii più sollevata che altro. Era un pensiero di meno, un peso che non dovevo portare. Passarono anni prima che realizzassi quanto è raro incontrare persone così.
Un passo alla volta, anche grazie a Carlo, cominciai a uscirne.
Ripresi alcune buone abitudini e mi concentrai su alcune cose importanti. Io e le mie sorelle ci avvicinammo, in qualche modo ci adattammo alla situazione. A Luca pensavo ancora, ma non come prima. Nelle giornate brutte, chiamavo Carlo e mi sfogavo con lui.
Mi diceva che dovevo lasciare Luca nel passato e andare avanti, che meno ci pensavo e meglio era.
Parlavamo dei miei problemi, della mia quotidianità, delle mie paure e delle mie speranze. Ogni tanto chiedevo “e tu invece?”, ma la conversazione cambiava subito direzione e tornava su di me. In quel periodo Carlo aveva conosciuto la ragazza che qualche anno dopo gli avrebbe dato un figlio, aveva cambiato lavoro e a suo padre era stato diagnosticato un tumore ai polmoni, ma di tutto questo non mi parlò mai. O probabilmente me ne parlò, ma io non mi ricordo nulla. Per Carlo ero un’amicizia tossica.
Non stavo ancora bene, ma stavo sempre meglio.
Poi, una sera incappai in una foto della squadra di Carlo e Luca: sedeva vicino a una ragazza con i capelli scuri che teneva la mano sulla sua gamba.
Tanto bastò a spazzare via tutti i progressi degli ultimi mesi.
Luca aveva trovato un’altra. Lei toccava la gamba che toccavo io, faceva le foto con la squadra. Diceva agli altri che era una frequentazione? O era la sua ragazza?
E nella foto c’era anche Carlo, quindi lui sapeva e non mi aveva detto nulla. Lo chiamai all’istante e gli chiesi una spiegazione.
Ricordo quella telefonata come uno dei miei momenti più bassi. Portai avanti la conversazione sull’assunto che Carlo mi avesse tradito. Lui mi rispose che saperlo non mi avrebbe fatto alcun bene. Gli risposi che la decisione di saperlo o meno era mia e che non aveva il diritto di decidere al posto mio. Mi disse che aveva deciso secondo coscienza, per lo stesso principio per cui non avrebbe regalato una bottiglia di whisky a un alcolizzato. Non capivo, né volevo farlo. Dissi che non mi interessava stare bene, ma dovevo essere sicura che Luca stesse bene. Lo derisi, lo chiamai geloso, arrogante, bugiardo. Gli chiesi di vederci per parlarne di persona, poi cambiai idea e gli dissi che non volevo vederlo. E così fu. Presi una persona che mi stava aiutando a superare un brutto periodo e la buttai fuori a calci dalla mia vita, facendo tutto il possibile affinché non tornasse più.
Un paio di settimane dopo mi telefonò Luca.
Era piacevole e gentile, com’era all’inizio. Chiese come stavo e mi disse che aveva cominciato a vedere un’altra persona.
Parlammo a lungo e per tutto il tempo mi sentii come la prima volta che eravamo usciti da soli.
Avrei dovuto essere arrabbiata. Anzi, non avrei nemmeno dovuto rispondere al telefono. Invece fui dolce e arrendevole. Gli dissi che mi faceva piacere risentirlo e parlammo a lungo, come vecchi amici che non si sentono da un po’. Stavo buttando all’aria tutta la fatica che avevo fatto per lasciarmi quella storia alle spalle e i pochi passi avanti che avevo fatto, per immaginare come doveva essere il suo sorriso mentre parlava con me al telefono. Decidemmo di trovarci per un caffè la settimana dopo.
La settimana dopo ci incontrammo in uno dei posti che eravamo soliti frequentare quando stavamo insieme. Non finsi nemmeno per un istante di non essere contenta di rivederlo.
Io gli raccontai della mia laurea, lui mi disse del campionato. Poi gli chiesi della sua nuova ragazza. Lui cercò di sviare su un altro argomento, io insistetti.
Si chiamava Elisa e l’aveva conosciuta durante un torneo, e in sostanza lei lo aveva corteggiato fino a che lui non aveva ceduto. Come avevo fatto io.
Gli raccontai che avevo passato un brutto periodo e che Carlo mi era stato vicino.
Disse che Carlo era stato vicino anche a lui.
Carlo aveva provato a procurargli un colloquio nell’azienda in cui lavorava, anche se Luca poi aveva rinunciato all’ultimo momento. Durante le partite aveva fatto in modo di farlo giocare di più, di metterlo più spesso al centro dell’azione. L’aveva costretto a non chiudersi dentro casa. Gli aveva detto quello che aveva detto anche a me: il passato è passato, meno ci pensi e meglio è. Ma Carlo non fu abbastanza convincente: Luca mi salutò con un bacio e mi invitò a casa sua quella sera. E io accettai all’istante. Senza pensare al torto che facevamo alla sua ragazza, che non mi aveva fatto niente, al torto che Luca faceva a me, credendo – per quanto a buon diritto – che fossi una cagnetta che poteva richiamare fischiando, o al torto che io facevo a me stessa, spogliandomi di ogni dignità.
Andai da lui quella sera e due giorni dopo.
Il weekend successivo Elisa sarebbe stata fuori città, quindi mi invitò a stare a casa sua per un paio di giorni.
Non parlavamo della nostra storia o di come si era conclusa. Non parlavamo dei suoi problemi o dei miei, o del fatto che mi sentivo sporca e sbagliata come non mi era mai successo.
Parlavamo di niente e facevamo l’amore.
Mi sentivo sporca e sbagliata come mi era mai successo, però andavo da lui. Mi tormentavo unghie e capelli al pensiero che c’era una ragazza che si chiamava Elisa, che era innamorata di un ragazzo che aveva ricominciato a scoparsi la sua ex. Ma tutto questo spariva nell’istante in cui Luca apriva la porta e sorrideva. Poi tornavo a casa mia e restavo con la certezza che Luca non voleva davvero stare con me, ma aveva bisogno di una scusa per chiudere anche con Elisa. Perché probabilmente lei gli voleva davvero bene, come gliene volevo io, e lui questo non riusciva a gestirlo.
Era sabato pomeriggio, Elisa doveva tornare la sera dopo.
Io e Luca eravamo a letto a riposare, quando suonò il campanello.
Luca andò alla finestra: fuori dal cancello del condominio c’era Carlo.
“Cazzo, me n’ero dimenticato. Doveva passare a prendere della roba per la squadra.”
Mi disse di stare lì e di non fare rumore.
Perché ero questo, un’amante da tenere nascosta.
Luca infilò i pantaloni e aprì il cancello.
Sentii la porta d’ingresso aprirsi e la voce di Luca.
“Ciao bello, scusami sai, mi ero del tutto dimenticato. Comunque è tutto in questa scatola.”
“Vai tranquillo. Ma perchè c’è qui davanti l’auto di S***?”
“L’auto di chi?”
“Luca, non prendermi per il culo. Sei qui con S***?”
Sentii la risposta di Luca. Aveva la voce di quando sorrideva.
“Sì, ma tu non hai visto niente.”
Poi sentii uno schiocco secco e Luca che alzava la voce.
“Ma che cazzo fai?”
Sentii trambusto, cose che cadevano e grugniti smorzati. Ci volle un po’ prima che capissi che si erano messi le mani addosso e quando li raggiunsi in ingresso, con addosso mutande e maglietta, vidi Carlo sopra a Luca.
Carlo aveva degli occhi che non avevo mai visto, mentre teneva fermo Luca con una mano e con l’altra lo colpiva sul viso. Con la mano aperta, perchè, nonostante tutto, non voleva fargli male. Ma le mani di Carlo erano come badili e il bel viso di Luca era già rosso e sanguinante. Fu solo per quello che mi feci avanti.
“Carlo, ma che fai? Lo fai per me? Devi stare fuori dalla mia vita!”
Carlo lasciò andare Luca e venne verso di me.
Capii cosa mi aspettava ma non feci niente per evitarlo.
Mi schiaffeggiò.
Una volta sola, sulla guancia sinistra. Sentii la sua mano sull’intera metà del mio viso.
“Non lo faccio per te. Lo faccio perchè qualcuno deve farlo.”
Disse così, poi le mani gli si abbassarono e sembrò diventare più piccolo. Aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma non disse nulla. Prese la scatola e se ne andò.
Restammo io e Luca. Il suo viso stava diventando gonfio e violaceo: gli chiesi se voleva una mano per curare i lividi, ma disse di no. Mi accorsi che voleva che me ne andassi. E che volevo andarmene anch’io.
Fu l’ultima volta che ci vedemmo. Ci sentimmo al telefono qualche giorno dopo e decidemmo, di comune accordo, di non incontrarci più.
Non ho più rivisto nemmeno Carlo.
Col passare dei giorni, tutto quello che è successo sembra perdere di consistenza, con l’eccezione dello schiaffo.
Decidemmo di non vederci più e così è stato. In seguito, seppi che era andato a convivere con Elisa e, con mia sorpresa, la cosa non mi toccò. Non ho più rivisto nemmeno Carlo. Non potrò mai dire che non abbia sbagliato. Un uomo che picchia una donna sbaglia sempre. Ma mi sono chiesta spesso se non sarebbe stato peggio, per me, se quello schiaffo non fosse mai arrivato. In fin dei conti, Carlo ci aveva messo solo una mano.